Avere un blog è avere un giardino. Qualcuno se ne prenderà cura gelosamente decidendo di non aprire mai il cancello, lasciandolo ammirare solo da dietro le inferriate, altri invece lasceranno entrare tutti condividendo con loro momenti molto importanti. un blog è come un giardino. Per alcuni segreto e per altri un parco pubblico, ma pur sempre un giardino che ci piace far ammirare.
mercoledì 29 giugno 2011
martedì 28 giugno 2011
EIgor Mitoraj
Taglia, spezza, disarticola, insomma fa a brandelli le statue classiche, da sempre principale fonte iconografica dell'antica Grecia. Chi si permette di fare questo? EIgor Mitoraj , nato nel 1944, che inizia a studiare pittura a Cracovia sotto la guida di Tadeusz Kantor - il grande pittore, scenografo e regista teatrale polacco - proseguendo poi gli studi a Parigi nel 1968, dove scopre il fascino delle antiche culture americane e, proprio per conoscerle direttamente, si trasferisce per un anno in Messico.
Nel 1974 torna a Parigi e, dopo avere ricevuto significativi riconoscimenti nel campo della scultura, decide di dedicarsi esclusivamente a questa. Trascorre lunghi periodi a New York e in Grecia toccando così i due estremi della modernità e della classicità. Nel 1979 giunge a Pietrasanta in Toscana - il paradiso per gli scultori. Qui scopre che il marmo, la terracotta e il bronzo sono i suoi materiali e decide, nel 1983, di aprire uno studio dividendo la sua vita tra l’Italia e la Francia. Le sue sculture sono state esposte in numerose occasioni in Europa e negli Stati Uniti: la mostra all’Accademy of Art di New York nel 1989 ne ha sancito il successo internazionale.
E’ quindi la classicità il referente principale di Mitoraj – che non disdegna di guardare anche alle culture dell’estremo oriente - un mito forse tramontato ma non finito, un richiamo costante per la civiltà occidentale, un indissolubile componente del nostro Dna, un elemento che anche il più sfrenato modernismo tecnologico non riesce a sradicare completamente. Non si tratta di un "rinascimento" o di uno dei vari ritorni al passato: guai a parlare di classicismo all'artista che ha espresso giudizi decisamente negativi sul principe del neoclassicismo, Antonio Canova! La sua lettura della tradizione classica non vuole esaltare (la sola rappresentazione dei modelli greci si auto-esalta) né adattare o rimodellare, ma vuole rappresentare per frammenti il tempo che è passato su queste sculture, così come frammentate ci sono giunte a rappresentare gli archetipi dell’antichità.
"Forse la frattura allude al mistero dell’antico che si manifesta a noi per frammenti, per allusioni, per evocazioni come i riflessi di un'Atlantide scomparsa". Così Antonio Paolucci nel catalogo della mostra cerca di spiegare il fascino che emanano queste opere. Probabilmente la scultura classica ha facile presa sul pubblico contemporaneo oramai smarrito nella babele di linguaggi, informazioni e mode di oggi, cui può risultare confortante anche la frantumata rappresentazione di Mitoraj. L’interpretazione, o più precisamente la rilettura che troviamo nelle sue sculture, può dare talvolta l’impressione di una scoperta archeologica. Ma non è un'operazione nostalgica né tanto meno ironica: sembra un intervento chirurgico, o meglio, un'autopsia, per isolare gli elementi di maggior rilievo. Non cerca di dare una risposta, anzi: ponendo lo spettatore in uno stato d’animo di sospesa attenzione fa sorgere invece interrogativi.
Meno riusciti sembrano i "pannelli" dove sono inseriti oggetti e pezzi di statua, o i "tasselli" ricavati nel corpo delle statue, poiché la forza delle opere di Mitoraj sta proprio nella purezza dell’operazione che non ha bisogno di contaminazioni di sorta. La mostra "Igor Mitoraj. Dei ed Eroi" (catalogo Electa con testi di Calvesi, Kuspit, Lolli Ghetti, Medri e Paolucci) aperta fino al 30 settembre, voluta dalla Cassa di Risparmio di Firenze per il 170° anniversario della sua fondazione, si snoda tra il Museo Archeologico di Firenze e i Giardini di Boboli con un allestimento che diviene esso stesso opera d’arte. Il confronto che si apre tra gli originali conservati nel museo e le opere "nuove" sembra un dialogo tra entità soprannaturali avvolte da una atmosfera ultraterrena, mentre l’inserimento delle sculture nell’artificio dei Giardini di Boboli - che rappresentano essi stessi uno degli esempi più riusciti di giardino all’italiana, ricco di sculture - riporta le statue a contatto con la natura, riproponendo un tema centrale per il mondo classico: il rapporto tra l’uomo e l’universo.
Sono inoltre esposti, a Palazzo Pitti, un gruppo di disegni il cui unico tema è la figura umana, che viene definita con pochi ed essenziali tratti. Pur sempre avendo un contatto con la scultura, i disegni sono decisamente meno ingessati nel tema portante della classicità, permettendo così l'emergere di sentimenti e sensazioni che nelle altre opere non trovano spazio. Si resta con questa esposizione ancora una volta stregati "dall'immutabile principio", come definì Winckelmann la bellezza classica, anche se si tratta dei resti del naufragio di un mondo oramai scomparso.
lunedì 27 giugno 2011
protezione civile..arrivederci
"Chi parte sa da che cosa fugge ma non sa che cosa cerca" .. diceva Lello Sodano.
Il mio più grande merito, che mi riconosco in questi 9 anni di esperienza in Protezione Civile di San Giorgio delle Pertiche, è quello di esser stato capace di acquisire preziose conoscenze da ognuno di Voi. Io dalla mia ci ho messo onestà , disponibilità, impegno,ed un pizzico di bravura e sono sicuro che il mio lavoro sia stato apprezzato. Io sono stato un privilegiato, lo sono stato grazie al comune ai sindaci, assesori e alla protezione civile che ha creduto in me, è stato un privilegiato nel lavorare in un contesto così vario e sano dove le difficoltà ci sono state e continueranno ad esserci anche quando sarò andato via, ma al contemplo vi è la forte consapevolezza che tutte le sfide che ci sono state richieste, le abbiamo portate a termine con successo. tuttavia la mia voglia di conoscere,di non fermarmi, di fare nuove esperienze nel ramo sanitario e assistenziale, di imparare ..e soprattutto dimostrare il mio valore ed avvertire ancora quella tensione (assolutamente positiva) . tutto questo mi ha fatto maturare la decisione che è giunto il momento di intraprendere una nuova sfida personale.
Sempre grazie…
Andrea
domenica 26 giugno 2011
parte del Discorso tenuto da Gandhi.New Delhi, 2 aprile 1947.
Se volete dare un messaggio
deve essere un messaggio d'amore
deve essere un messagio di verità,
io voglio catturare i vostri cuori
lasciate che i vostri cuori battino all'unisono
con quello che vi sto dicendo:
ieri un amico mi ha chiesto se
credo in un mondo unito
come potrei diversamente?
Certo che credo in un mondo unico!
deve essere un messaggio d'amore
deve essere un messagio di verità,
io voglio catturare i vostri cuori
lasciate che i vostri cuori battino all'unisono
con quello che vi sto dicendo:
ieri un amico mi ha chiesto se
credo in un mondo unito
come potrei diversamente?
Certo che credo in un mondo unico!
Pericle
Qui ad Atene noi facciamo così.
Qui il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: e per questo viene chiamato democrazia.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Le leggi qui assicurano una giustizia eguale per tutti nelle loro dispute private, ma noi non ignoriamo mai i meriti dell’eccellenza.
Quando un cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenza di altri, chiamato a servire lo Stato, ma non come un atto di privilegio, come una ricompensa al merito, e la povertà non costituisce un impedimento.
Qui ad Atene noi facciamo così.
La libertà di cui godiamo si estende anche alla vita quotidiana; noi non siamo sospettosi l’uno dell’altro e non infastidiamo mai il nostro prossimo se al nostro prossimo piace vivere a modo suo.
Noi siamo liberi, liberi di vivere proprio come ci piace e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo.
Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private, ma soprattutto non si occupa dei pubblici affari per risolvere le sue questioni private.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Ci è stato insegnato di rispettare i magistrati, e ci è stato insegnato anche di rispettare le leggi e di non dimenticare mai che dobbiamo proteggere coloro che ricevono offesa.
E ci è stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte che risiedono nell’universale sentimento di ciò che è giusto e di ciò che è buon senso.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Un uomo che non si interessa allo Stato noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile; e benchè in pochi siano in grado di dare vita ad una politica, beh tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla.
Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia.
Noi crediamo che la felicità sia il frutto della libertà, ma la libertà sia solo il frutto del valore.
Insomma, io proclamo che Atene è la scuola dell’Ellade e che ogni ateniese cresce sviluppando in sé una felice versalità, la fiducia in se stesso, la prontezza a fronteggiare qualsiasi situazione ed è per questo che la nostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Discorso agli Ateniesi, 461 a.C.
"I have a dream"
Sono felice di unirmi a voi in questa che passerà alla storia come la più grande dimostrazione per la libertà nella storia del nostro paese. Cento anni fa un grande americano, alla cui ombra ci leviamo oggi, firmò il Proclama sull’Emancipazione. Questo fondamentale decreto venne come un grande faro di speranza per milioni di schiavi negri che erano stati bruciati sul fuoco dell’avida ingiustizia. Venne come un’alba radiosa a porre termine alla lunga notte della cattività.
Ma cento anni dopo, il negro ancora non è libero; cento anni dopo, la vita del negro è ancora purtroppo paralizzata dai ceppi della segregazione e dalle catene della discriminazione; cento anni dopo, il negro ancora vive su un’isola di povertà solitaria in un vasto oceano di prosperità materiale; cento anni dopo; il negro langue ancora ai margini della società americana e si trova esiliato nella sua stessa terra.
Per questo siamo venuti qui, oggi, per rappresentare la nostra condizione vergognosa. In un certo senso siamo venuti alla capitale del paese per incassare un assegno. Quando gli architetti della repubblica scrissero le sublimi parole della Costituzione e la Dichiarazione d’Indipendenza, firmarono un "pagherò" del quale ogni americano sarebbe diventato erede. Questo "pagherò" permetteva che tutti gli uomini, si, i negri tanto quanto i bianchi, avrebbero goduto dei principi inalienabili della vita, della libertà e del perseguimento della felicità.
E’ ovvio, oggi, che l’America è venuta meno a questo "pagherò" per ciò che riguarda i suoi cittadini di colore. Invece di onorare questo suo sacro obbligo, l’America ha consegnato ai negri un assegno fasullo; un assegno che si trova compilato con la frase: "fondi insufficienti". Noi ci rifiutiamo di credere che i fondi siano insufficienti nei grandi caveau delle opportunità offerte da questo paese. E quindi siamo venuti per incassare questo assegno, un assegno che ci darà, a presentazione, le ricchezze della libertà e della garanzia di giustizia.
Siamo anche venuti in questo santuario per ricordare all’America l’urgenza appassionata dell’adesso. Questo non è il momento in cui ci si possa permettere che le cose si raffreddino o che si trangugi il tranquillante del gradualismo. Questo è il momento di realizzare le promesse della democrazia; questo è il momento di levarsi dall’oscura e desolata valle della segregazione al sentiero radioso della giustizia.; questo è il momento di elevare la nostra nazione dalle sabbie mobili dell’ingiustizia razziale alla solida roccia della fratellanza; questo è il tempo di rendere vera la giustizia per tutti i figli di Dio. Sarebbe la fine per questa nazione se non valutasse appieno l’urgenza del momento. Questa estate soffocante della legittima impazienza dei negri non finirà fino a quando non sarà stato raggiunto un tonificante autunno di libertà ed uguaglianza.
Il 1963 non è una fine, ma un inizio. E coloro che sperano che i negri abbiano bisogno di sfogare un poco le loro tensioni e poi se ne staranno appagati, avranno un rude risveglio, se il paese riprenderà a funzionare come se niente fosse successo.
Non ci sarà in America né riposo né tranquillità fino a quando ai negri non saranno concessi i loro diritti di cittadini. I turbini della rivolta continueranno a scuotere le fondamenta della nostra nazione fino a quando non sarà sorto il giorno luminoso della giustizia.
Ma c’è qualcosa che debbo dire alla mia gente che si trova qui sulla tiepida soglia che conduce al palazzo della giustizia. In questo nostro procedere verso la giusta meta non dobbiamo macchiarci di azioni ingiuste.
Cerchiamo di non soddisfare la nostra sete di libertà bevendo alla coppa dell’odio e del risentimento. Dovremo per sempre condurre la nostra lotta al piano alto della dignità e della disciplina. Non dovremo permettere che la nostra protesta creativa degeneri in violenza fisica. Dovremo continuamente elevarci alle maestose vette di chi risponde alla forza fisica con la forza dell’anima.
Questa meravigliosa nuova militanza che ha interessato la comunità negra non dovrà condurci a una mancanza di fiducia in tutta la comunità bianca, perché molti dei nostri fratelli bianchi, come prova la loro presenza qui oggi, sono giunti a capire che il loro destino è legato col nostro destino, e sono giunti a capire che la loro libertà è inestricabilmente legata alla nostra libertà. Questa offesa che ci accomuna, e che si è fatta tempesta per le mura fortificate dell’ingiustizia, dovrà essere combattuta da un esercito di due razze. Non possiamo camminare da soli.
E mentre avanziamo, dovremo impegnarci a marciare per sempre in avanti. Non possiamo tornare indietro. Ci sono quelli che chiedono a coloro che chiedono i diritti civili: "Quando vi riterrete soddisfatti?" Non saremo mai soddisfatti finché il negro sarà vittima degli indicibili orrori a cui viene sottoposto dalla polizia.
Non potremo mai essere soddisfatti finché i nostri corpi, stanchi per la fatica del viaggio, non potranno trovare alloggio nei motel sulle strade e negli alberghi delle città. Non potremo essere soddisfatti finché gli spostamenti sociali davvero permessi ai negri saranno da un ghetto piccolo a un ghetto più grande.
Non potremo mai essere soddisfatti finché i nostri figli saranno privati della loro dignità da cartelli che dicono:"Riservato ai bianchi". Non potremo mai essere soddisfatti finché i negri del Mississippi non potranno votare e i negri di New York crederanno di non avere nulla per cui votare. No, non siamo ancora soddisfatti, e non lo saremo finché la giustizia non scorrerà come l’acqua e il diritto come un fiume possente.
Non ha dimenticato che alcuni di voi sono giunti qui dopo enormi prove e tribolazioni. Alcuni di voi sono venuti appena usciti dalle anguste celle di un carcere. Alcuni di voi sono venuti da zone in cui la domanda di libertà ci ha lasciato percossi dalle tempeste della persecuzione e intontiti dalle raffiche della brutalità della polizia. Siete voi i veterani della sofferenza creativa. Continuate ad operare con la certezza che la sofferenza immeritata è redentrice.
Ritornate nel Mississippi; ritornate in Alabama; ritornate nel South Carolina; ritornate in Georgia; ritornate in Louisiana; ritornate ai vostri quartieri e ai ghetti delle città del Nord, sapendo che in qualche modo questa situazione può cambiare, e cambierà. Non lasciamoci sprofondare nella valle della disperazione.
E perciò, amici miei, vi dico che, anche se dovrete affrontare le asperità di oggi e di domani, io ho sempre davanti a me un sogno. E’ un sogno profondamente radicato nel sogno americano, che un giorno questa nazione si leverà in piedi e vivrà fino in fondo il senso delle sue convinzioni: noi riteniamo ovvia questa verità, che tutti gli uomini sono creati uguali.
Io ho davanti a me un sogno, che un giorno sulle rosse colline della Georgia i figli di coloro che un tempo furono schiavi e i figli di coloro che un tempo possedettero schiavi, sapranno sedere insieme al tavolo della fratellanza.
Io ho davanti a me un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississippi, uno stato colmo dell’arroganza dell’ingiustizia, colmo dell’arroganza dell’oppressione, si trasformerà in un’oasi di libertà e giustizia.
Io ho davanti a me un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere. Ho davanti a me un sogno, oggi!.
Io ho davanti a me un sogno, che un giorno ogni valle sarà esaltata, ogni collina e ogni montagna saranno umiliate, i luoghi scabri saranno fatti piani e i luoghi tortuosi raddrizzati e la gloria del Signore si mostrerà e tutti gli essere viventi, insieme, la vedranno. E’ questa la nostra speranza. Questa è la fede con la quale io mi avvio verso il Sud.
Con questa fede saremo in grado di strappare alla montagna della disperazione una pietra di speranza. Con questa fede saremo in grado di trasformare le stridenti discordie della nostra nazione in una bellissima sinfonia di fratellanza.
Con questa fede saremo in grado di lavorare insieme, di pregare insieme, di lottare insieme, di andare insieme in carcere, di difendere insieme la libertà, sapendo che un giorno saremo liberi. Quello sarà il giorno in cui tutti i figli di Dio sapranno cantare con significati nuovi: paese mio, di te, dolce terra di libertà, di te io canto; terra dove morirono i miei padri, terra orgoglio del pellegrino, da ogni pendice di montagna risuoni la libertà; e se l’America vuole essere una grande nazione possa questo accadere.
Risuoni quindi la libertà dalle poderose montagne dello stato di New York.
Risuoni la libertà negli alti Allegheny della Pennsylvania.
Risuoni la libertà dalle Montagne Rocciose del Colorado, imbiancate di neve.
Risuoni la libertà dai dolci pendii della California.
Ma non soltanto.
Risuoni la libertà dalla Stone Mountain della Georgia.
Risuoni la libertà dalla Lookout Mountain del Tennessee.
Risuoni la libertà da ogni monte e monticello del Mississippi. Da ogni pendice risuoni la libertà.
E quando lasciamo risuonare la libertà, quando le permettiamo di risuonare da ogni villaggio e da ogni borgo, da ogni stato e da ogni città, acceleriamo anche quel giorno in cui tutti i figli di Dio, neri e bianchi, ebrei e gentili, cattolici e protestanti, sapranno unire le mani e cantare con le parole del vecchio spiritual: "Liberi finalmente, liberi finalmente; grazie Dio Onnipotente, siamo liberi finalmente".
Ma cento anni dopo, il negro ancora non è libero; cento anni dopo, la vita del negro è ancora purtroppo paralizzata dai ceppi della segregazione e dalle catene della discriminazione; cento anni dopo, il negro ancora vive su un’isola di povertà solitaria in un vasto oceano di prosperità materiale; cento anni dopo; il negro langue ancora ai margini della società americana e si trova esiliato nella sua stessa terra.
Per questo siamo venuti qui, oggi, per rappresentare la nostra condizione vergognosa. In un certo senso siamo venuti alla capitale del paese per incassare un assegno. Quando gli architetti della repubblica scrissero le sublimi parole della Costituzione e la Dichiarazione d’Indipendenza, firmarono un "pagherò" del quale ogni americano sarebbe diventato erede. Questo "pagherò" permetteva che tutti gli uomini, si, i negri tanto quanto i bianchi, avrebbero goduto dei principi inalienabili della vita, della libertà e del perseguimento della felicità.
E’ ovvio, oggi, che l’America è venuta meno a questo "pagherò" per ciò che riguarda i suoi cittadini di colore. Invece di onorare questo suo sacro obbligo, l’America ha consegnato ai negri un assegno fasullo; un assegno che si trova compilato con la frase: "fondi insufficienti". Noi ci rifiutiamo di credere che i fondi siano insufficienti nei grandi caveau delle opportunità offerte da questo paese. E quindi siamo venuti per incassare questo assegno, un assegno che ci darà, a presentazione, le ricchezze della libertà e della garanzia di giustizia.
Siamo anche venuti in questo santuario per ricordare all’America l’urgenza appassionata dell’adesso. Questo non è il momento in cui ci si possa permettere che le cose si raffreddino o che si trangugi il tranquillante del gradualismo. Questo è il momento di realizzare le promesse della democrazia; questo è il momento di levarsi dall’oscura e desolata valle della segregazione al sentiero radioso della giustizia.; questo è il momento di elevare la nostra nazione dalle sabbie mobili dell’ingiustizia razziale alla solida roccia della fratellanza; questo è il tempo di rendere vera la giustizia per tutti i figli di Dio. Sarebbe la fine per questa nazione se non valutasse appieno l’urgenza del momento. Questa estate soffocante della legittima impazienza dei negri non finirà fino a quando non sarà stato raggiunto un tonificante autunno di libertà ed uguaglianza.
Il 1963 non è una fine, ma un inizio. E coloro che sperano che i negri abbiano bisogno di sfogare un poco le loro tensioni e poi se ne staranno appagati, avranno un rude risveglio, se il paese riprenderà a funzionare come se niente fosse successo.
Non ci sarà in America né riposo né tranquillità fino a quando ai negri non saranno concessi i loro diritti di cittadini. I turbini della rivolta continueranno a scuotere le fondamenta della nostra nazione fino a quando non sarà sorto il giorno luminoso della giustizia.
Ma c’è qualcosa che debbo dire alla mia gente che si trova qui sulla tiepida soglia che conduce al palazzo della giustizia. In questo nostro procedere verso la giusta meta non dobbiamo macchiarci di azioni ingiuste.
Cerchiamo di non soddisfare la nostra sete di libertà bevendo alla coppa dell’odio e del risentimento. Dovremo per sempre condurre la nostra lotta al piano alto della dignità e della disciplina. Non dovremo permettere che la nostra protesta creativa degeneri in violenza fisica. Dovremo continuamente elevarci alle maestose vette di chi risponde alla forza fisica con la forza dell’anima.
Questa meravigliosa nuova militanza che ha interessato la comunità negra non dovrà condurci a una mancanza di fiducia in tutta la comunità bianca, perché molti dei nostri fratelli bianchi, come prova la loro presenza qui oggi, sono giunti a capire che il loro destino è legato col nostro destino, e sono giunti a capire che la loro libertà è inestricabilmente legata alla nostra libertà. Questa offesa che ci accomuna, e che si è fatta tempesta per le mura fortificate dell’ingiustizia, dovrà essere combattuta da un esercito di due razze. Non possiamo camminare da soli.
E mentre avanziamo, dovremo impegnarci a marciare per sempre in avanti. Non possiamo tornare indietro. Ci sono quelli che chiedono a coloro che chiedono i diritti civili: "Quando vi riterrete soddisfatti?" Non saremo mai soddisfatti finché il negro sarà vittima degli indicibili orrori a cui viene sottoposto dalla polizia.
Non potremo mai essere soddisfatti finché i nostri corpi, stanchi per la fatica del viaggio, non potranno trovare alloggio nei motel sulle strade e negli alberghi delle città. Non potremo essere soddisfatti finché gli spostamenti sociali davvero permessi ai negri saranno da un ghetto piccolo a un ghetto più grande.
Non potremo mai essere soddisfatti finché i nostri figli saranno privati della loro dignità da cartelli che dicono:"Riservato ai bianchi". Non potremo mai essere soddisfatti finché i negri del Mississippi non potranno votare e i negri di New York crederanno di non avere nulla per cui votare. No, non siamo ancora soddisfatti, e non lo saremo finché la giustizia non scorrerà come l’acqua e il diritto come un fiume possente.
Non ha dimenticato che alcuni di voi sono giunti qui dopo enormi prove e tribolazioni. Alcuni di voi sono venuti appena usciti dalle anguste celle di un carcere. Alcuni di voi sono venuti da zone in cui la domanda di libertà ci ha lasciato percossi dalle tempeste della persecuzione e intontiti dalle raffiche della brutalità della polizia. Siete voi i veterani della sofferenza creativa. Continuate ad operare con la certezza che la sofferenza immeritata è redentrice.
Ritornate nel Mississippi; ritornate in Alabama; ritornate nel South Carolina; ritornate in Georgia; ritornate in Louisiana; ritornate ai vostri quartieri e ai ghetti delle città del Nord, sapendo che in qualche modo questa situazione può cambiare, e cambierà. Non lasciamoci sprofondare nella valle della disperazione.
E perciò, amici miei, vi dico che, anche se dovrete affrontare le asperità di oggi e di domani, io ho sempre davanti a me un sogno. E’ un sogno profondamente radicato nel sogno americano, che un giorno questa nazione si leverà in piedi e vivrà fino in fondo il senso delle sue convinzioni: noi riteniamo ovvia questa verità, che tutti gli uomini sono creati uguali.
Io ho davanti a me un sogno, che un giorno sulle rosse colline della Georgia i figli di coloro che un tempo furono schiavi e i figli di coloro che un tempo possedettero schiavi, sapranno sedere insieme al tavolo della fratellanza.
Io ho davanti a me un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississippi, uno stato colmo dell’arroganza dell’ingiustizia, colmo dell’arroganza dell’oppressione, si trasformerà in un’oasi di libertà e giustizia.
Io ho davanti a me un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere. Ho davanti a me un sogno, oggi!.
Io ho davanti a me un sogno, che un giorno ogni valle sarà esaltata, ogni collina e ogni montagna saranno umiliate, i luoghi scabri saranno fatti piani e i luoghi tortuosi raddrizzati e la gloria del Signore si mostrerà e tutti gli essere viventi, insieme, la vedranno. E’ questa la nostra speranza. Questa è la fede con la quale io mi avvio verso il Sud.
Con questa fede saremo in grado di strappare alla montagna della disperazione una pietra di speranza. Con questa fede saremo in grado di trasformare le stridenti discordie della nostra nazione in una bellissima sinfonia di fratellanza.
Con questa fede saremo in grado di lavorare insieme, di pregare insieme, di lottare insieme, di andare insieme in carcere, di difendere insieme la libertà, sapendo che un giorno saremo liberi. Quello sarà il giorno in cui tutti i figli di Dio sapranno cantare con significati nuovi: paese mio, di te, dolce terra di libertà, di te io canto; terra dove morirono i miei padri, terra orgoglio del pellegrino, da ogni pendice di montagna risuoni la libertà; e se l’America vuole essere una grande nazione possa questo accadere.
Risuoni quindi la libertà dalle poderose montagne dello stato di New York.
Risuoni la libertà negli alti Allegheny della Pennsylvania.
Risuoni la libertà dalle Montagne Rocciose del Colorado, imbiancate di neve.
Risuoni la libertà dai dolci pendii della California.
Ma non soltanto.
Risuoni la libertà dalla Stone Mountain della Georgia.
Risuoni la libertà dalla Lookout Mountain del Tennessee.
Risuoni la libertà da ogni monte e monticello del Mississippi. Da ogni pendice risuoni la libertà.
E quando lasciamo risuonare la libertà, quando le permettiamo di risuonare da ogni villaggio e da ogni borgo, da ogni stato e da ogni città, acceleriamo anche quel giorno in cui tutti i figli di Dio, neri e bianchi, ebrei e gentili, cattolici e protestanti, sapranno unire le mani e cantare con le parole del vecchio spiritual: "Liberi finalmente, liberi finalmente; grazie Dio Onnipotente, siamo liberi finalmente".
sabato 25 giugno 2011
El istante magico
Todos los dias Dios
nos da un momento
en que es posible cambiar todo lo que nos hace infelices.
es el momento
en que un si o un no pueden cambiare toda nuestra existencia.
nos da un momento
en que es posible cambiar todo lo que nos hace infelices.
es el momento
en que un si o un no pueden cambiare toda nuestra existencia.
valigetta di primo soccorso
Stuzzicadende cauciucerotto matita Gomma da cancellare gomma americana cioccolato ed una borsetta di the istantaneo.
Stuzzicadente:per ricordarti di scavare negli altri le qualità che hanno.
Cauciù:affinche ti ricordi di essere flessibile,poichè le cose e le persone non sono come tu vorresti cerotto:Per aiutarti a curare i sentimenti feriti tuoi e degli altri.
Matita:Per annotare ogni giorno le benedizioni (e sono tante)
Gomma da cancellare:per ricordarti che tutti commettono errori e non succede niente
Gomma americana:per ricordarti di attaccarti a tutto quello che puoi portare avanti con il tuo sforzo
Un cioccolatino:per ricordarti che tutti hanno bisogno di un bacio o un abbraccio quotidiano.
Stuzzicadente:per ricordarti di scavare negli altri le qualità che hanno.
Cauciù:affinche ti ricordi di essere flessibile,poichè le cose e le persone non sono come tu vorresti cerotto:Per aiutarti a curare i sentimenti feriti tuoi e degli altri.
Matita:Per annotare ogni giorno le benedizioni (e sono tante)
Gomma da cancellare:per ricordarti che tutti commettono errori e non succede niente
Gomma americana:per ricordarti di attaccarti a tutto quello che puoi portare avanti con il tuo sforzo
Un cioccolatino:per ricordarti che tutti hanno bisogno di un bacio o un abbraccio quotidiano.
Che parole ...
bisogna dire per dare gioia?
Che parole bisogna dire per dare felicità?
Bisogna dire amicizia? Bisogna dire concordia?
Bisogna dire anche libertà? O bisogna prenderti la mano?
Che parole bisogna dire per dare Amore?
Che parole bisogna dire per dare tenerezza?
Bisogna dire ti amo? Bisogna dire sempre?
Bisogna dire anche bambini? O bisogna prenderti la mano?
Che parole bisogna dire? Che parole?
E se non dico niente, se taccio?
Se ti guardo semplicemente
E se ti sorrido
Allora la mia mano prenderà da sola la tua
E tu sentirai queste parole
Nel mio silenzio
Che parole bisogna dire per dare felicità?
Bisogna dire amicizia? Bisogna dire concordia?
Bisogna dire anche libertà? O bisogna prenderti la mano?
Che parole bisogna dire per dare Amore?
Che parole bisogna dire per dare tenerezza?
Bisogna dire ti amo? Bisogna dire sempre?
Bisogna dire anche bambini? O bisogna prenderti la mano?
Che parole bisogna dire? Che parole?
E se non dico niente, se taccio?
Se ti guardo semplicemente
E se ti sorrido
Allora la mia mano prenderà da sola la tua
E tu sentirai queste parole
Nel mio silenzio
muro
Nessuno credo riesce ad ammetterlo, ma pretendiamo la perfezione nelle persone che ci circondano, vediamo in essi una quantità di difetti, di mancanze, e ci arrabbiamo ogni giorno, per una serie di aspettative mancate. Ci aspettiamo dagli altri che si comportino come noi avremo fatto, come noi riteniamo più giusto, più consono al nostro modo di essere, come a noi avrebbe fatto piacere. Ma raramente questo accade, una persona mi ha detto, non bisogna aspettarsi niente, è ho trovato molto triste questa frase, credo sia nell’animo umano aspettarsi qualcosa dagli altri, altrimenti non avrebbe più senso nulla, da non scambiare con il pretendere, che è tutto un altro discorso. Quello che spessissimo ci passa per la testa è il pensiero di aver dato qualcosa e di faticare enormemente per avere una pur minima contropartita, anche se nessuno fa le cose, almeno dovrebbe essere così, con il disegno di averne successivamente benefici, e sto parlando di rapporti umani, alla fine ci si trova a sbattere contro muri invalicabili di incomprensioni e aspettative mancate, che immancabilmente ci portano ad allontanarci dalle persone, a pensare che il mondo dei cattivi si sia unito in complotto contro di noi, per farci tutto il male possibile. Però è anche vero, che se da una parte si chiede perfezione, dall’altra ci sta l’ostinazione a non cedere nulla o poco di se stessi, per motivi caratteriali, per partito preso, o perché si pensa che gli altri ci debbano prendere come siamo, e nonostante ci sia chiaro cosa voglia l’altro da noi, pensiamo che concederlo sia perdere la libertà di essere noi stessi, ma forse ci sarebbe da chiedersi un attimo se ci siamo mai veramente raccontati. Abbiamo mai pensato di raccontare come siamo? Con tutta l’onestà possibile e con tutto il desiderio di farci veramente capire? Oppure questa mancata perfezione che riscontriamo negli altri ci fa perdere di vista, quanto noi stessi siamo imperfetti, quanta fatica chiediamo a chi ci sta intorno, di arrovellarsi, scervellarsi, pretendendo che capiscano qualcosa che noi ostinatamente continuiamo a nascondere: noi stessi…la nostra anima.E si finisce per trasformare i rapporti umani in una pantomima di una lotta greco romana, in cui qualcuno tende le braccia per abbracciarci, e noi gli poniamo le mani sul petto per respingerlo, e ogni volta le braccia fanno più male, e quelle braccia un giorno saranno abbassate lungo il corpo, inermi, stanche, smetteranno di abbracciare, e noi saremo pronti a lagnarci del mancato abbraccio, dimenticando le nostre mani che hanno respinto, allontanato…E in questo labirinto di muri altissimi, cerchiamo affannosamente il manovale, il muratore, colui che li ha costruiti, ma non ci rendiamo contro di aver impastato la calce, di aver portato noi ogni giorno la cariola, i mattoni…e siamo stati attenti che questo muro venisse perfetto…stiamo cercando quella no?</
mercoledì 22 giugno 2011
la meraviglia del cielo stellato
Per poter gioire di questa meravigliosa immagine del cielo stellato, ci sono voluti ben 37.000 singoli scatti e 96.000 km di percorrenza fra gli Stati Uniti ed il Sud Africa.
L'autore è Nick Risinger, un ragazzo di 28 anni che, nel marzo del 2010 assieme a suo fratello portarono 6 fotocamere astronomiche nel deserto del Nevada.
Ogni Notte Risinger e suo padre posizionano le fotocamere su un treppiedi che ruota con la terra e vengono effettuati dai 20 ai 70 scatti finché non sorge il sole. La maggior parte dell’emisfero boreale è stato scattato fra l’Arizona, il Texas e la California del nord. L’emisfero boreale invece è stato immortalato in due viaggi in Sud Africa dalla stessa zona che ospita il Southern African Large Telescope.
Il risultato finale è una mappa interattiva che mostra tutta la Via Lattea, i pianeti, le galassie e nebulose attorno.
martedì 21 giugno 2011
Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati
L'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (United Nations High Commissioner for Refugees) è l'Agenzia delle Nazioni Unite specializzata nella gestione dei rifugiati; fornisce loro protezione internazionale ed assistenza materiale, e persegue soluzioni durevoli per la loro drammatica condizione. È stata fondata il 14 dicembre 1950 dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite, iniziando ad operare dal 1º gennaio del 1951. Ha assistito 50 milioni di persone[senza fonte] e ha vinto due premi Nobel per la pace, rispettivamente nel 1954 e nel 1981.
L'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati conferisce annualmente il prestigioso "Premio Nansen per i Rifugiati", precedentemente conosciuto come "Onorificenza Nansen" (intitolata a Fridtjof Nansen), a persone o gruppi che si siano distinti per "l'eccellente servizio alla causa dei rifugiati".
I beneficiari dell'UNHCR sono:
Secondo i dati riportati dal rapporto del 2007 dell'Agenzia Appel Global, 6.689 persone lavorano in 116 paesi in tutto il mondo per aiutare rifugiati e sfollati. Lo stesso rapporto indica nella cifra di 21.018.589 le persone che rientrano nella competenza dell'UNHCR.
L'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati conferisce annualmente il prestigioso "Premio Nansen per i Rifugiati", precedentemente conosciuto come "Onorificenza Nansen" (intitolata a Fridtjof Nansen), a persone o gruppi che si siano distinti per "l'eccellente servizio alla causa dei rifugiati".
I beneficiari dell'UNHCR sono:
- Rifugiati: definiti dalla Convenzione del 1951 sullo Statuto dei Rifugiati come persone che
« nel giustificato timore d'essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato; oppure a chiunque, essendo apolide e trovandosi fuori dei suo Stato di domicilio in seguito a tali avvenimenti, non può o, per il timore sopra indicato, non vuole ritornarvi » | |
(articolo 1, lettera A, paragrafo 2) |
- Rimpatriati: coloro che, essendo rifugiati, chiedono di poter tornare nel proprio paese d'origine.
- Richiedenti Asilo: coloro che, lasciato il loro paese d'origine e avendo inoltrato una richiesta d'asilo, sono in attesa di una risposta dal paese ospitante per ottenere lo status di rifugiato.
- Apolidi: coloro che non hanno la cittadinanza in nessuno Stato.
- Sfollati interni (IDP, Internally Displaced Persons): coloro che sono costretti a spostarsi per conflitti o cause naturali all'interno della propria nazione.
Secondo i dati riportati dal rapporto del 2007 dell'Agenzia Appel Global, 6.689 persone lavorano in 116 paesi in tutto il mondo per aiutare rifugiati e sfollati. Lo stesso rapporto indica nella cifra di 21.018.589 le persone che rientrano nella competenza dell'UNHCR.
Il debriefing
Il debriefing è la valutazione finale di un processo. Come il termine briefing, viene dal linguaggio militare, e letteralmente significa "andare a rapporto al termine di una missione". In una riunione reale o virtuale con le persone che hanno partecipato al progetto, si confronta la relazione finale con il briefing, e si tirano le somme.
Spesso il debriefing apre nuove prospettive che richiedono di avviare un nuovo processo di problem setting. Tutto comincia con il briefing e finisce con il debriefing.Con il briefing si entra nel gioco, con il debriefing se ne esce.
Nel gioco (nel processo) si fanno esperienze dirette. Fuori dal gioco siamo spettatori, critici, giudici. Siamo in grado di vedere da fuori il funzionamento del gioco, e noi stessi come giocatori. Con il gioco si impara facendo, dopo del gioco con il debriefing si impara riflettendo su ciò che si è fatto.
Briefing: che cosa dobbiamo fare?
Debriefing: che cosa abbiamo fatto?
Benchmarking come problem setting: dal confronto con i migliori nasce il disagio e si riesce ad individuare l’area di miglioramento.
Debug = eliminazione dei difetti che porta al miglioramento delle procedure
Verifica = valutazione dei risultati
Debriefing = riflessione finale su tutto ciò che è accaduto, di bene e di male. Considerare retrospettivamente ciò che è stato fatto (è una facoltà del pensiero). Trovare le motivazioni per azioni che non erano state richieste esplicitamente dal briefing ma che era necessario eseguire per ottemperare al briefing.
A volte è il problema stesso che costituisce un problema. Ad esempio un venditore insistente pensa di risolvere un nostro problema di acquisto (hai bisogno di questo? Te lo vendo), ma se noi gli diciamo che non abbiamo bisogno di niente e lui insiste, invece di possibile soluzione di problemi diventa un problema. Torniamo così al problem setting, perché un problema mal posto può essere ignorato in quanto falso problema, o comunque risolto con spreco di tempo e di energie.
Nella pratica zen i problemi (koan) vengono posti al praticante dal maestro. Nello zen i problemi vanno affrontati solo quando si presentano. Il praticante si pone il problema solo quando decide di fare pratica con un maestro (l’equivoco è che lui la vede come soluzione del problema, non come setting di un nuovo problema, o di una nuova serie di problemi).
Spesso il debriefing apre nuove prospettive che richiedono di avviare un nuovo processo di problem setting. Tutto comincia con il briefing e finisce con il debriefing.Con il briefing si entra nel gioco, con il debriefing se ne esce.
Nel gioco (nel processo) si fanno esperienze dirette. Fuori dal gioco siamo spettatori, critici, giudici. Siamo in grado di vedere da fuori il funzionamento del gioco, e noi stessi come giocatori. Con il gioco si impara facendo, dopo del gioco con il debriefing si impara riflettendo su ciò che si è fatto.
Briefing: che cosa dobbiamo fare?
Debriefing: che cosa abbiamo fatto?
Benchmarking come problem setting: dal confronto con i migliori nasce il disagio e si riesce ad individuare l’area di miglioramento.
Debug = eliminazione dei difetti che porta al miglioramento delle procedure
Verifica = valutazione dei risultati
Debriefing = riflessione finale su tutto ciò che è accaduto, di bene e di male. Considerare retrospettivamente ciò che è stato fatto (è una facoltà del pensiero). Trovare le motivazioni per azioni che non erano state richieste esplicitamente dal briefing ma che era necessario eseguire per ottemperare al briefing.
Problemi che generano problemi
A volte è il problema stesso che costituisce un problema. Ad esempio un venditore insistente pensa di risolvere un nostro problema di acquisto (hai bisogno di questo? Te lo vendo), ma se noi gli diciamo che non abbiamo bisogno di niente e lui insiste, invece di possibile soluzione di problemi diventa un problema. Torniamo così al problem setting, perché un problema mal posto può essere ignorato in quanto falso problema, o comunque risolto con spreco di tempo e di energie.
Nella pratica zen i problemi (koan) vengono posti al praticante dal maestro. Nello zen i problemi vanno affrontati solo quando si presentano. Il praticante si pone il problema solo quando decide di fare pratica con un maestro (l’equivoco è che lui la vede come soluzione del problema, non come setting di un nuovo problema, o di una nuova serie di problemi).
Soluzioni che generano problemi
Spesso è proprio la soluzione di un problema che genera un altro problema. Per esempio quando Messner sale tutti i 14 Ottomila del mondo, risolvendo uno spettacolare problema alpinistico, emerge il nuovo problema per l’alpinista: che fare dopo i 14 ottomila?tempo
Ti auguro soltanto quello che i piu' non hanno. Ti auguro tempo, per divertirti e per ridere; se lo impiegherai bene, potrai ricavarne qualcosa.
Ti auguro tempo, per il tuo fare e il tuo pensare,non solo per te stesso, ma anche per donarlo agli altri.
Ti auguro tempo, non per affrettarti e correre, ma tempo per essere contento.
Ti auguro tempo, non soltanto per trascorrerlo, ti auguro tempo perchè te ne resti: tempo per stupirti e tempo per fidarti e non soltanto per guardarlo sull'orologio.
Ti auguro tempo per toccare le stelle e tempo per crescere, per maturare.
Ti auguro tempo, per sperare nuovamente e per amare. Non ha piu' senso rimandare.
Ti auguro tempo per trovare te stesso, per vivere ogni tuo giorno, ogni tua ora come un dono. Ti auguro tempo anche per perdonare. Ti auguro di avere tempo, tempo per la vita.
Ti auguro tempo, per il tuo fare e il tuo pensare,non solo per te stesso, ma anche per donarlo agli altri.
Ti auguro tempo, non per affrettarti e correre, ma tempo per essere contento.
Ti auguro tempo, non soltanto per trascorrerlo, ti auguro tempo perchè te ne resti: tempo per stupirti e tempo per fidarti e non soltanto per guardarlo sull'orologio.
Ti auguro tempo per toccare le stelle e tempo per crescere, per maturare.
Ti auguro tempo, per sperare nuovamente e per amare. Non ha piu' senso rimandare.
Ti auguro tempo per trovare te stesso, per vivere ogni tuo giorno, ogni tua ora come un dono. Ti auguro tempo anche per perdonare. Ti auguro di avere tempo, tempo per la vita.
le streghe di salem
Parlare di ciò che accadde in quel lontano 1692 nel New England non è semplice.
Quella non fu solo l’ennesima triste storia di persecuzioni irragionevoli e folli,
ma fu l’esempio perfetto di tali persecuzioni:
senza basi, senza motivi, senza fondamenti,
senza che nemmeno il minimo barlume di ragione e luce illuminasse le menti
di chi poteva porre fine alla tortura, alla sofferenza, all’orrore dilagante.
Siamo nel Nuovo Mondo, terre sconfinate sotto il dominio del puritanesimo,
e appena fuori dei villaggi e dalle città
le tribù indiane pronte a massacrare e uccidere.
Le vicende di Salem Villane, uniche, ci permettono,
proprio grazie alla loro unicità di dare un volto,
un nome, una storia, una personalità ben definita
ad ogni singolo sfortunato protagonista.
Conosciamo le parole dette, i pensieri taciuti confidati ai diari,
l’ambiente nel quale tutto si svolse…
E non scordiamo, che ciò che ebbe inizio a Salem
nell’inverno del 1692 ammorbò nel corso dell’anno tutto il Massachussets….
La vicenda è stata narrata più e più volte.
Durante quel gelido inverno la piccola Betty Parris, di 9 anni,
figlia del reverendo Parris, e la cuginetta Abigaill Williams di 11,
vengono colte da crisi isteriche, cadono in stati vegetativi,
assumono posizioni innaturali, hanno convulsioni, pronunciano frasi sconnesse,
perdono completamente ogni controllo: sembrano possedute.
Alle due piccole se ne aggiungono ben presto altre, molte altre.
Si cercano colpevoli ad ogni costo,
si cercano le streghe che hanno gettato il maleficio sulle bambine.
Le prime a venir accusate sono donne ininfluenti,
la cui esistenza non ha nessun peso nella comunità.
Sono la schiava dei Parris Tituba; Sarah Good, e Sarah Osburn:
due povere donne finite in miseria che vivono reiette
ai margini della rigidissima società puritana.
Ma perché non fermarsi a queste tre povere donne?
Perché ci fu un così ampio dilagare di accuse?
E soprattutto perché credere alle bambine?
Rispondere alla prima domanda è relativamente semplice:
in una piccola comunità schiacciata dalla morale puritana del XVII secolo,
gli odi, i rancori, le invidie e le vendette crescono in fretta, senza freni…
Far condannare il proprio vicino, liberarsene, significa poterne prendere i terreni…,
far condannare la levatrice significa
trovare una scusa per la propria sfortuna o sterilità.
Ci si sfogava, nel più violento, cruento e crudele dei modi:
si umiliava e si degradava l’essere umano.
Lo si uccideva prima nell’anima e poi nel corpo.
Ma perché credere alle bambine?
Perché le bambine non fingevano, o almeno, non sempre…
Erano davvero colte da crisi isteriche. Ma perché?
La risposta va cercata nell’analisi
dell’ambiente e della società nella quale vivevano.
L’inverno del 1692 fu particolarmente rigido.
Le case erano gelide, le funzioni tenute in chiesa a volte
venivano spostate nella taverna tanto era il freddo,
e spesso era consentito di portare con sé coperte,
mattoni caldi e persino i cani per riscaldarsi.
La vita era rigidamente ed assolutamente scandita dalle regole della Fede.
I bambini non facevano eccezione.
Da loro ci si aspettava ciò che ci si aspettava dagli adulti,
e spesso, come monito, gli si ricordava che avrebbero potuto morire
e finire all’inferno in qualsiasi istante,
nonostante la loro giovanissima età: esattamente come i grandi.
Tutto ciò faceva parte dell’educazione che doveva venir loro impartita.
Ovviamente i più sensibili vivevano immersi in un costante stato d’ansia.
A 7 anni i bimbi in casa dovevano essere d’aiuto e avere i loro compiti
da svolgere stabiliti in modo chiaro.
Giocavano pochissimo, e i loro giochi ci spiegano bene la situazione.
I divertimenti dei bambini sono lo specchio della realtà nella quale vivono:
i bimbi di Salem si dilettavano a far finta di andare in chiesa,
frustare ed uccidere i quaccheri, e fare le streghe.
Crescendo i maschi avevano la possibilità di sfogarsi
con la caccia, ma le fanciulle no.
Ai genitori veniva chiesto di istruire i figli
quel tanto che bastava per leggere la Bibbia.
Inoltre non vi erano molte possibilità di avere altri libri,
e se di altri libri si trattava erano sempre incentrati sulla religione.
Alle ragazze era così negata la possibilità di crescere
sia emozionalmente che culturalmente:
da loro ci si aspettava una totale sottomissione.
O eri una donna docile o eri una peccatrice:
e di lì a divenire una strega da impiccare il passo era davvero breve.
Se in Europa molte streghe non erano che levatrici e donne sagge
che conoscevano i rimedi naturali e le proprietà delle piante e delle erbe;
a Salem le streghe non erano che povere donne ignoranti, talvolta dementi,
altre volte addirittura donne rette,
buone, altruiste, benestanti, in una parola: da invidiare.
Analizzando tutto ciò capiamo da dove prese origini l’isteria
che afflisse così tante fanciulle in quell’epoca.
Dai documenti pervenutici sappiamo che Betty Parris e Abigail Williams (orfana),
godevano di una libertà anomala: infatti,
sia il reverendo Parris che sua moglie spesso si assentavano
e lasciavano le bambine in custodia alla schiava Tituba.
Tituba veniva dalle Barbados e quindi va da sé che non aveva assimilato
pressoché nulla della mentalità puritana del New England.
Conosceva il vudoo e molte favole e leggende magiche da narrare alle bimbe.
Quell’inverno le bambine per spezzare la monotonia
e la noia iniziarono a giocare a predire il futuro gettando
l’albume di un uovo in un bicchiere d’acqua e tentando di decifrarne la forma assunta.
Un responso andato male e la prima crisi si scatenò.
Teniamo in considerazionepoi che per i puritani il demonio
era una creatura che ti camminava accanto costantemente:
reale, quasi tangibile.
Le bambine si sentivano streghe in quelle notti, facevano davvero ‘le magie del demonio’,
non era un gioco: era un che di proibito che loro sfidavano.
L’emozione di far qualcosa di vietato
unito ad un responso ‘che faceva paura’ fu l’inizio del dramma.
Nel New England del XVII secolo I casi di convulsioni, cecità, rigidità,
dolori inspiegabili, frasi sconnesse, insomma,
i casi di stati simili alla possessione erano davvero frequenti.
Ora sappiamo che si trattava di isteria.
Le vittime prima di tali attacchi erano solite avvertire,
in modo da scongiurare il pericolo che i familiari potessero ferirsi o farsi male.
Secondo Freud e Beuer la causa di tali stati era l’emozione repressa
e secondo gli studi di Charcot, le vittime avevano in comune un fattore:
la mancanza di potere.
E’ quanto mai evidente come entrambi gli elementi
fossero presenti nelle fanciulle di Salem Village.
Tra il 10 giugno 1692 e il 22 settembre 1692,
20 persone furono giustiziate tramite impiccagione
ed entro il 1693 altre 5 sarebbero morte nelle prigioni.
10 giugno Bridget Bishop
19 luglio Sarah Good
Elizabeth How
Susannah Martin
Rebecca Nurse
Sarah Wilds
19 agosto George Burroghs
Martha Carrier
George Jacobs
John Proctor
John Willard
19 settembre Giles Cory (pressato con pietre sul petto fino ad ucciderlo)
22 settembre Martha Cory
Mary Esty
Alice Parker
Mary Parker
Ann Pudeator
Wilmot Redd
Margaret Scott
Samuel Wardwell
In prigione, accusate di stregoneria morirono:
Sarah Osburn il 10 maggio 1692;
Roger Toothaaker il 16 giugno 1692;
il bambino neonato e senza nome di Sarah Good il 19 luglio 1692, giorno della morte della madre;
Ann Foster il 3 dicembre 1692;
Lydia dastin il 10 marzo 1693
“L’uomo è alla ricerca della tragedia
e delle emozioni forti;
se non riesce ad ottenere soddisfazione
ad un livello più alto,
si crea da solo la tragedia della distruzione”
Erich Fromm
Quella non fu solo l’ennesima triste storia di persecuzioni irragionevoli e folli,
ma fu l’esempio perfetto di tali persecuzioni:
senza basi, senza motivi, senza fondamenti,
senza che nemmeno il minimo barlume di ragione e luce illuminasse le menti
di chi poteva porre fine alla tortura, alla sofferenza, all’orrore dilagante.
Siamo nel Nuovo Mondo, terre sconfinate sotto il dominio del puritanesimo,
e appena fuori dei villaggi e dalle città
le tribù indiane pronte a massacrare e uccidere.
Le vicende di Salem Villane, uniche, ci permettono,
proprio grazie alla loro unicità di dare un volto,
un nome, una storia, una personalità ben definita
ad ogni singolo sfortunato protagonista.
Conosciamo le parole dette, i pensieri taciuti confidati ai diari,
l’ambiente nel quale tutto si svolse…
E non scordiamo, che ciò che ebbe inizio a Salem
nell’inverno del 1692 ammorbò nel corso dell’anno tutto il Massachussets….
La vicenda è stata narrata più e più volte.
Durante quel gelido inverno la piccola Betty Parris, di 9 anni,
figlia del reverendo Parris, e la cuginetta Abigaill Williams di 11,
vengono colte da crisi isteriche, cadono in stati vegetativi,
assumono posizioni innaturali, hanno convulsioni, pronunciano frasi sconnesse,
perdono completamente ogni controllo: sembrano possedute.
Alle due piccole se ne aggiungono ben presto altre, molte altre.
Si cercano colpevoli ad ogni costo,
si cercano le streghe che hanno gettato il maleficio sulle bambine.
Le prime a venir accusate sono donne ininfluenti,
la cui esistenza non ha nessun peso nella comunità.
Sono la schiava dei Parris Tituba; Sarah Good, e Sarah Osburn:
due povere donne finite in miseria che vivono reiette
ai margini della rigidissima società puritana.
Ma perché non fermarsi a queste tre povere donne?
Perché ci fu un così ampio dilagare di accuse?
E soprattutto perché credere alle bambine?
Rispondere alla prima domanda è relativamente semplice:
in una piccola comunità schiacciata dalla morale puritana del XVII secolo,
gli odi, i rancori, le invidie e le vendette crescono in fretta, senza freni…
Far condannare il proprio vicino, liberarsene, significa poterne prendere i terreni…,
far condannare la levatrice significa
trovare una scusa per la propria sfortuna o sterilità.
Ci si sfogava, nel più violento, cruento e crudele dei modi:
si umiliava e si degradava l’essere umano.
Lo si uccideva prima nell’anima e poi nel corpo.
Ma perché credere alle bambine?
Perché le bambine non fingevano, o almeno, non sempre…
Erano davvero colte da crisi isteriche. Ma perché?
La risposta va cercata nell’analisi
dell’ambiente e della società nella quale vivevano.
L’inverno del 1692 fu particolarmente rigido.
Le case erano gelide, le funzioni tenute in chiesa a volte
venivano spostate nella taverna tanto era il freddo,
e spesso era consentito di portare con sé coperte,
mattoni caldi e persino i cani per riscaldarsi.
La vita era rigidamente ed assolutamente scandita dalle regole della Fede.
I bambini non facevano eccezione.
Da loro ci si aspettava ciò che ci si aspettava dagli adulti,
e spesso, come monito, gli si ricordava che avrebbero potuto morire
e finire all’inferno in qualsiasi istante,
nonostante la loro giovanissima età: esattamente come i grandi.
Tutto ciò faceva parte dell’educazione che doveva venir loro impartita.
Ovviamente i più sensibili vivevano immersi in un costante stato d’ansia.
A 7 anni i bimbi in casa dovevano essere d’aiuto e avere i loro compiti
da svolgere stabiliti in modo chiaro.
Giocavano pochissimo, e i loro giochi ci spiegano bene la situazione.
I divertimenti dei bambini sono lo specchio della realtà nella quale vivono:
i bimbi di Salem si dilettavano a far finta di andare in chiesa,
frustare ed uccidere i quaccheri, e fare le streghe.
Crescendo i maschi avevano la possibilità di sfogarsi
con la caccia, ma le fanciulle no.
Ai genitori veniva chiesto di istruire i figli
quel tanto che bastava per leggere la Bibbia.
Inoltre non vi erano molte possibilità di avere altri libri,
e se di altri libri si trattava erano sempre incentrati sulla religione.
Alle ragazze era così negata la possibilità di crescere
sia emozionalmente che culturalmente:
da loro ci si aspettava una totale sottomissione.
O eri una donna docile o eri una peccatrice:
e di lì a divenire una strega da impiccare il passo era davvero breve.
Se in Europa molte streghe non erano che levatrici e donne sagge
che conoscevano i rimedi naturali e le proprietà delle piante e delle erbe;
a Salem le streghe non erano che povere donne ignoranti, talvolta dementi,
altre volte addirittura donne rette,
buone, altruiste, benestanti, in una parola: da invidiare.
Analizzando tutto ciò capiamo da dove prese origini l’isteria
che afflisse così tante fanciulle in quell’epoca.
Dai documenti pervenutici sappiamo che Betty Parris e Abigail Williams (orfana),
godevano di una libertà anomala: infatti,
sia il reverendo Parris che sua moglie spesso si assentavano
e lasciavano le bambine in custodia alla schiava Tituba.
Tituba veniva dalle Barbados e quindi va da sé che non aveva assimilato
pressoché nulla della mentalità puritana del New England.
Conosceva il vudoo e molte favole e leggende magiche da narrare alle bimbe.
Quell’inverno le bambine per spezzare la monotonia
e la noia iniziarono a giocare a predire il futuro gettando
l’albume di un uovo in un bicchiere d’acqua e tentando di decifrarne la forma assunta.
Un responso andato male e la prima crisi si scatenò.
Teniamo in considerazionepoi che per i puritani il demonio
era una creatura che ti camminava accanto costantemente:
reale, quasi tangibile.
Le bambine si sentivano streghe in quelle notti, facevano davvero ‘le magie del demonio’,
non era un gioco: era un che di proibito che loro sfidavano.
L’emozione di far qualcosa di vietato
unito ad un responso ‘che faceva paura’ fu l’inizio del dramma.
Nel New England del XVII secolo I casi di convulsioni, cecità, rigidità,
dolori inspiegabili, frasi sconnesse, insomma,
i casi di stati simili alla possessione erano davvero frequenti.
Ora sappiamo che si trattava di isteria.
Le vittime prima di tali attacchi erano solite avvertire,
in modo da scongiurare il pericolo che i familiari potessero ferirsi o farsi male.
Secondo Freud e Beuer la causa di tali stati era l’emozione repressa
e secondo gli studi di Charcot, le vittime avevano in comune un fattore:
la mancanza di potere.
E’ quanto mai evidente come entrambi gli elementi
fossero presenti nelle fanciulle di Salem Village.
Tra il 10 giugno 1692 e il 22 settembre 1692,
20 persone furono giustiziate tramite impiccagione
ed entro il 1693 altre 5 sarebbero morte nelle prigioni.
10 giugno Bridget Bishop
19 luglio Sarah Good
Elizabeth How
Susannah Martin
Rebecca Nurse
Sarah Wilds
19 agosto George Burroghs
Martha Carrier
George Jacobs
John Proctor
John Willard
19 settembre Giles Cory (pressato con pietre sul petto fino ad ucciderlo)
22 settembre Martha Cory
Mary Esty
Alice Parker
Mary Parker
Ann Pudeator
Wilmot Redd
Margaret Scott
Samuel Wardwell
In prigione, accusate di stregoneria morirono:
Sarah Osburn il 10 maggio 1692;
Roger Toothaaker il 16 giugno 1692;
il bambino neonato e senza nome di Sarah Good il 19 luglio 1692, giorno della morte della madre;
Ann Foster il 3 dicembre 1692;
Lydia dastin il 10 marzo 1693
“L’uomo è alla ricerca della tragedia
e delle emozioni forti;
se non riesce ad ottenere soddisfazione
ad un livello più alto,
si crea da solo la tragedia della distruzione”
Erich Fromm
lunedì 20 giugno 2011
Maja & babi
Le persone più belle che ho conosciuto sono quelle che hanno conosciuto la sconfitta, la sofferenza, lo sforzo, la perdita e hanno trovato la loro via per uscire dal buio. Queste persone hanno una stima, una sensibilità, e una comprensione della vita che le riempie di compassione, gentilezza e un interesse di profondo amore. Le persone belle non capitano semplicemente...
persone rare...
Detto ciò, ci sono persone che riconoscono la mia «normalità» e ne sono attratte. Queste rare persone e io ci attraiamo a vicenda, come pianeti sospesi nel buio dell'universo, che una forza irresistibile avvicina l'uno all'altro, per poi allontanarli di nuovo. Mi cercano, creano un rapporto con me e un bel giorno se ne vanno. Possono essere amici, amanti, mogli. Anche nemici. Ma sempre, prima o poi, se ne vanno. Per stanchezza, disperazione, o perchè le cose che avevano da dire si sono esaurite, come un rubinetto che non dà più acqua. Da me ci sono due porte, una per entrare e una per uscire. Rigorosamente diverse. Dalla porta d'ingresso non si può uscire, e da quella d'uscita non si può entrare. Tutti seguono questa regola. Possono variare le modalità, ma tutti finiscono per andare via. C'è chi è andato via per sperimentare nuove possibilità, chi per risparmiare tempo. Qualcuno è morto. Fatto sta che non è rimasto nessuno. Tranne me, unico superstite. La loro assenza è sempre con me. Le loro parole, i loro respiri, i motivi canticchiati a bassa voce, aleggiano come polvere negli angoli di casa mia.
venerdì 17 giugno 2011
LORENZO IL MAGNIFICO
Figlio di Pietro di Cosimo il Vecchio e di Lucrezia Tornabuoni, Lorenzo De Medici nacque il giorno 1 gennaio 1449 a Firenze. Sin da piccolo ricevette un'educazione umanistica e, appena sedicenne, si rivelò un abile uomo politico nelle missioni che gli furono assegnate a Napoli, Roma e Venezia.
Nel 1469, anno della morte del padre, si sposò con la nobile Clarice Orsini, accettando contemporaneamente di diventare signore di Firenze. Sul piano politico, Lorenzo mostrò di essere un fine diplomatico ed un accorto politico, compiendo una profonda trasformazione dell'ordinamento interno dello Stato che gli permise di ottenere un potere più saldo e più legale e di assegnare alla città il ruolo di stato moderatore della politica italiana.
Nel 1472 guidò Firenze nella guerra di Volterra per rafforzare il dominio della città nella penisola italica. Sventò infatti, con l'aiuto dei fiorentini, la congiura dei Pazzi che, sostenuti dal Papa, volevano destituirlo; Sisto IV lanciò la scomunica a Lorenzo e successivamente l'interdetto contro la città: in breve, si ebbe la guerra.
Firenze si alleò con la Repubblica di Venezia e con il Ducato di Milano per contrastare il Papa e il suo alleato Ferdinando di Napoli, ma la situazione per Firenze si era fatta critica. Cosi il Magnifico si recò il 6 Dicembre del 1479 a Napoli per cercare di stipulare un patto di non belligeranza con Ferdinando, che accettò, rendendosi conto della potenza che avrebbe potuto assumere lo stato della Chiesa negli anni futuri. Sisto IV, ormai solo, fu costretto a cedere.
Questa situazione rafforzò il prestigio di Firenze e di Lorenzo de Medici: a partire dal 1479 iniziò in Italia una politica di alleanze con Firenze da parte di città come Lucca, Siena, Perugia, Bologna; e da parte di Firenze, una politica di acquisizioni territoriali come Sarzana e Pian Caldoli. Nel 1482 Lorenzo il Magnifico si alleò con il Ducato di Milano per contrastare la città di Ferrara; poi si alleò con il Papa contro la Repubblica di Venezia. Quando il Papa Innocenzo VIII mosse guerra a Ferdinando di Napoli, decise di allearsi con quest'ultimo.
La pace nel 1486 tra Papa Innocenzo VIII e Ferdinando fu merito di Lorenzo il Magnifico. In questo periodo storico si dimostrò "l'ago della bilancia" d'Italia, conferendo con la sua straordinaria abilità politica e diplomatica una politica di pace e di equilibrio in tutta l'Italia. Lorenzo, oltre ad essere un grande mediatore, fu elogiato per il suo il generoso mecenatismo; aveva infatti infiniti interessi culturali, e fu anche poeta, seppur non eccellente.
Scrisse le Rime e il Comento, sonetti d'amore sullo stile della Vita Nuova di Dante, in cui raccontò il sorgere dell'amore per Lucrezia Donati; l'Ambra in cui riprese le Metamorfosi ovidiane.
Morì nella villa di Careggi nel 1492, lasciando un grande vuoto nel ruolo di ago della bilancia della storia d'Italia, che aveva ricoperto così eccezionalmente.
Nel 1469, anno della morte del padre, si sposò con la nobile Clarice Orsini, accettando contemporaneamente di diventare signore di Firenze. Sul piano politico, Lorenzo mostrò di essere un fine diplomatico ed un accorto politico, compiendo una profonda trasformazione dell'ordinamento interno dello Stato che gli permise di ottenere un potere più saldo e più legale e di assegnare alla città il ruolo di stato moderatore della politica italiana.
Nel 1472 guidò Firenze nella guerra di Volterra per rafforzare il dominio della città nella penisola italica. Sventò infatti, con l'aiuto dei fiorentini, la congiura dei Pazzi che, sostenuti dal Papa, volevano destituirlo; Sisto IV lanciò la scomunica a Lorenzo e successivamente l'interdetto contro la città: in breve, si ebbe la guerra.
Firenze si alleò con la Repubblica di Venezia e con il Ducato di Milano per contrastare il Papa e il suo alleato Ferdinando di Napoli, ma la situazione per Firenze si era fatta critica. Cosi il Magnifico si recò il 6 Dicembre del 1479 a Napoli per cercare di stipulare un patto di non belligeranza con Ferdinando, che accettò, rendendosi conto della potenza che avrebbe potuto assumere lo stato della Chiesa negli anni futuri. Sisto IV, ormai solo, fu costretto a cedere.
Questa situazione rafforzò il prestigio di Firenze e di Lorenzo de Medici: a partire dal 1479 iniziò in Italia una politica di alleanze con Firenze da parte di città come Lucca, Siena, Perugia, Bologna; e da parte di Firenze, una politica di acquisizioni territoriali come Sarzana e Pian Caldoli. Nel 1482 Lorenzo il Magnifico si alleò con il Ducato di Milano per contrastare la città di Ferrara; poi si alleò con il Papa contro la Repubblica di Venezia. Quando il Papa Innocenzo VIII mosse guerra a Ferdinando di Napoli, decise di allearsi con quest'ultimo.
La pace nel 1486 tra Papa Innocenzo VIII e Ferdinando fu merito di Lorenzo il Magnifico. In questo periodo storico si dimostrò "l'ago della bilancia" d'Italia, conferendo con la sua straordinaria abilità politica e diplomatica una politica di pace e di equilibrio in tutta l'Italia. Lorenzo, oltre ad essere un grande mediatore, fu elogiato per il suo il generoso mecenatismo; aveva infatti infiniti interessi culturali, e fu anche poeta, seppur non eccellente.
Scrisse le Rime e il Comento, sonetti d'amore sullo stile della Vita Nuova di Dante, in cui raccontò il sorgere dell'amore per Lucrezia Donati; l'Ambra in cui riprese le Metamorfosi ovidiane.
Morì nella villa di Careggi nel 1492, lasciando un grande vuoto nel ruolo di ago della bilancia della storia d'Italia, che aveva ricoperto così eccezionalmente.
Jean-Michel Basquiat
è stato una meteora nel panorama culturale: un artista con una gran fretta di vivere, a cui, però, va riconosciuto il merito di essere riuscito ad influenzare pienamente e da protagonista il suo tempo. Nato a Brooklyn nel 1960, da genitori di origini haitiane e portoricane, Basquiat fin da piccolo mostra particolare interesse per l'arte, incoraggiato in ciò anche dalla madre che ne comprese la sensibilità e cercò, a modo suo, di farne emergere il talento, accompagnandolo in giro per i musei di New York.
A 17 anni Basquiat si avvicina al mondo delle droghe (all’LSD in particolare) e comincia, pure, a dipingere con graffiti i muri dei palazzi di Manhattan e del metrò, firmandosi inizialmente con “Samo” - acronimo che sta per Same Ol' Shit - e a ricevere i primi riconoscimenti dai media locali.
I suoi graffiti contengono spesso frasi rivoluzionarie e risentono di molteplici echi culturali con contaminazioni ed influenze che vanno dal Dadaismo all'art brut di Dubuffet fino alla più recente Pop Art. Il primo incontro fra Basquiat e il padre della Pop Art americana, Andy Warhol, avviene alla fine degli anni settanta.
Il giovane e squattrinato graffitista, all’uscita di un ristorante di Soho, vende a Warhol una cartolina per un dollaro senza, però, suscitare nell’eccentrico artista particolare interesse, la loro amicizia nascerà, infatti, soltanto qualche anno più tardi. Nel frattempo, Jean-Michel Basquiat continua a frequentare gli ambienti culturali dell'Est Village e insieme a Micheal Holman fonda il gruppo musicale “Gray”, il cui nome si ispira al famoso libro di illustrazioni scientifiche Gray's Anatomy, pubblicato in Gran Bretagna nel 1860.
Nel volgere di poco tempo, la carriera di Basquiat decolla. Nell’ambiente newyorkese è noto come musicista e soprattutto come artista, le sue creazioni sono richieste dal pubblico e i migliori galleristi della città fanno a gara per esporle. Il talento trasgressivo di Basquiat conquista ben presto, anche, Andy Warhol, che nel 1983 lo accoglie nella sua Factory dando inizio ad una proficua collaborazione che influenzerà profondamente l’opera del giovane graffittista.
Naturalmente, i linguaggi espressivi usati dai due artisti sono completamente agli antipodi: mentre Andy Warohl ritrae una società consumistica ed insensibile attraverso la pittura fotografica o ricorrendo ad anonimi multipli che riproducono all'infinito la stessa banale realtà, Basquiat denuncia nelle sue opere soprattutto la condizione della comunità afroamericana e, quindi, la crudeltà di una società che lo ha alienato, emarginato e discriminato. Urla la sua rabbia per l'indifferenza, la solitudine, la povertà in cui la gente di strada, come lui, è costretta a fare i conti tutti i giorni a causa della stupida miopia e dei pregiudizi della comunità di cultura “bianca”.
Sotto la protezione carismatica di Andy Warhol, la popolarità di Basquiat fuoriesce dai confini newyorkesi affermandosi a livello mondiale. Nonostante il successo, però, non riesce ad avere il pieno controllo di sé. Vittima di un sistema organizzativo e commerciale - quello appunto messo in piedi dai galleristi negli anni ottanta - che chiedeva ai suoi artisti di produrre a gettito continuo opere da smerciare sul mercato per venderle ai nuovi ricchi, Basquiat finisce col essere travolto dalla depressione e dalla droga - di cui era divenuto schiavo - e muore a soli 27 anni. Basquiat è stato, certamente, un personaggio complesso e controverso, un artista che ha vissuto e cavalcato la vita secondo le sue più profonde convinzioni: "Da quando avevo 17 anni, ho sempre pensato che sarei diventato una star. Dovrei pensare ai miei eroi, Charlie Parker, Jimi Hendrix...avevo un'idea romantica di come le persone diventassero famose".
E il James Dean dell’arte - come alcuni critici l’hanno definito - la sua idea di successo l’ha rincorsa e realizzata fino in fondo…
A 17 anni Basquiat si avvicina al mondo delle droghe (all’LSD in particolare) e comincia, pure, a dipingere con graffiti i muri dei palazzi di Manhattan e del metrò, firmandosi inizialmente con “Samo” - acronimo che sta per Same Ol' Shit - e a ricevere i primi riconoscimenti dai media locali.
I suoi graffiti contengono spesso frasi rivoluzionarie e risentono di molteplici echi culturali con contaminazioni ed influenze che vanno dal Dadaismo all'art brut di Dubuffet fino alla più recente Pop Art. Il primo incontro fra Basquiat e il padre della Pop Art americana, Andy Warhol, avviene alla fine degli anni settanta.
Il giovane e squattrinato graffitista, all’uscita di un ristorante di Soho, vende a Warhol una cartolina per un dollaro senza, però, suscitare nell’eccentrico artista particolare interesse, la loro amicizia nascerà, infatti, soltanto qualche anno più tardi. Nel frattempo, Jean-Michel Basquiat continua a frequentare gli ambienti culturali dell'Est Village e insieme a Micheal Holman fonda il gruppo musicale “Gray”, il cui nome si ispira al famoso libro di illustrazioni scientifiche Gray's Anatomy, pubblicato in Gran Bretagna nel 1860.
Nel volgere di poco tempo, la carriera di Basquiat decolla. Nell’ambiente newyorkese è noto come musicista e soprattutto come artista, le sue creazioni sono richieste dal pubblico e i migliori galleristi della città fanno a gara per esporle. Il talento trasgressivo di Basquiat conquista ben presto, anche, Andy Warhol, che nel 1983 lo accoglie nella sua Factory dando inizio ad una proficua collaborazione che influenzerà profondamente l’opera del giovane graffittista.
Naturalmente, i linguaggi espressivi usati dai due artisti sono completamente agli antipodi: mentre Andy Warohl ritrae una società consumistica ed insensibile attraverso la pittura fotografica o ricorrendo ad anonimi multipli che riproducono all'infinito la stessa banale realtà, Basquiat denuncia nelle sue opere soprattutto la condizione della comunità afroamericana e, quindi, la crudeltà di una società che lo ha alienato, emarginato e discriminato. Urla la sua rabbia per l'indifferenza, la solitudine, la povertà in cui la gente di strada, come lui, è costretta a fare i conti tutti i giorni a causa della stupida miopia e dei pregiudizi della comunità di cultura “bianca”.
Sotto la protezione carismatica di Andy Warhol, la popolarità di Basquiat fuoriesce dai confini newyorkesi affermandosi a livello mondiale. Nonostante il successo, però, non riesce ad avere il pieno controllo di sé. Vittima di un sistema organizzativo e commerciale - quello appunto messo in piedi dai galleristi negli anni ottanta - che chiedeva ai suoi artisti di produrre a gettito continuo opere da smerciare sul mercato per venderle ai nuovi ricchi, Basquiat finisce col essere travolto dalla depressione e dalla droga - di cui era divenuto schiavo - e muore a soli 27 anni. Basquiat è stato, certamente, un personaggio complesso e controverso, un artista che ha vissuto e cavalcato la vita secondo le sue più profonde convinzioni: "Da quando avevo 17 anni, ho sempre pensato che sarei diventato una star. Dovrei pensare ai miei eroi, Charlie Parker, Jimi Hendrix...avevo un'idea romantica di come le persone diventassero famose".
E il James Dean dell’arte - come alcuni critici l’hanno definito - la sua idea di successo l’ha rincorsa e realizzata fino in fondo…
Jean Michel Jarre
All'anagrafe, quella di Jean Michel Jarre sembrerebbe la tipica vita del figlio d'arte predestinato a calcare le orme paterne, se non fosse che Maurice Jarre l'avrebbe abbandonato all'età di cinque anni per seguire a Hollywood la sua carriera di compositore di colonne sonore e rifarsi una seconda famiglia. In qualche modo sarà l'assenza della figura paterna a evitare che Jarre ne assimili passivamente l'ascendente artistico, lasciandolo libero di avventurarsi in solitaria nei territori inesplorati delle avanguardie musicali così distanti dal sinfonismo classico delle più celebri partiture del genitore (su tutte quelle per "Lawrence d'Arabia" e "il Dottor Zivago"), e alimentando al contempo quella vena melanconica e mistericamente introspettiva che diventerà la chiave dominante della sua opera matura. Non a caso quella per la musica è in origine una fascinazione che nasce in funzione del rigetto della concezione classica della notazione accademica. Insofferente alle pedantesche lezioni di piano classico che gli venivano impartite in età scolare, dalle performance dei sassofonisti jazz Harchie Sheep e John Coltrane alle quali assisteva insieme alla madre nel club parigino "Le Chat-qui-Peche", Jarre apprenderà invece come la musica possa tradurre in maniera irriflessa stati emotivi e suggestioni visive senza il supporto di tecnicismi e testi cantati. Trova così un primo spazio di libertà creativa nella pittura esponendo quadri ispirati all'astrattismo di Pierre Soulages e al surrealismo di Joan Mirò e Yves Tanguy nella galleria di Lione "L'Oeil Ecoute" ("l'Occhio ascolta" una definizione che ben si attaglia al futuro stile "jarriano"), e nella musica rock che negli anni 60 si faceva veicolo di istanze anticonformiste, suonando la chitarra nei gruppi rock Mystère IV e The Dustbins. È la simultaneità di queste due pulsioni creative a stimolare la ricerca una metodologia espressiva volta a risolverne l'apparente inconciliabilità sotto il segno di una nuova forma di sinestesia ancora da inventare. Sulla scia di Eric Satie, John Cage e Terry Riley, dapprima Jarre sperimenta con nastri suonati al contrario o mescolando i suoni della chitarra con quelli di flauti, pianoforti preparati, percussioni, effetti da rumorista, per poi passare alle radio e a rudimentali dispositivi elettronici.
Nel 1969 questa ostinazione a sconfinare dalla "ridotta" della musica tradizionale gli apre infine le porte del "Groupe de Recherches Musicales (GRM)" di Parigi fondato da Pierre Schaeffer nel 1958, guru della della "musica concreta" che al cerebralismo della composizione scritta oppone l'iperrealistica potenza evocativa del suono puro. La figura di Schaeffer viene a colmare il vuoto artistico lasciato dal padre naturale, celebrando i natali della carriera di compositore di Jarre, che nello stesso anno darà alle stampe il suo primo 45 giri di musica "concreta": sulle facciate del vinile "La Cage" e "Eros Machine", con le loro micromelodie singhiozzanti e metalliche soffocate da gemiti orgasmici, aritmie percussive e ragli di ingranaggi (che anticipano nel codice sonoro le atmosfere biomeccanoidi dei quadri di H.R. Giger) si presentano come ideali manifesti di una nuova quanto estrema concezione estetica fondata sul "Nullpunkt" della musica convenzionale, risospinta in quell'oscuro utero cosmico in cui l'unica differenza tra il rumore e il suono risiede nell'intenzione con la quale viene prodotto. Il singolo vende una manciata di copie e, come avverrà anche per il successivo album Deserted Palace del 1972, circoscrive la sua importanza all'essere il proemio in sordina a quella che diverrà in seguito un'inclinazione sistematica a modellare involucri atmosferici mediante ingegnosi puzzle di effetti (precorrendo la scuola "noise music") nei quali poter incapsulare eterei ritornelli da easy listening.
Di lì a due anni, la nuova vena stilistica corroborata dall'uso esponenziale di primitivi sintetizzatori scoperti presso il Gruppo di Ricerca. come l'Ems Synthi Aks e il celeberrimo Moog modular, si esprimerà in quella che è la prima composizione per strumenti elettronici ad avere l'onore di accompagnare un balletto d'opera in sette movimenti, ispirata ai colori dell'arcobaleno e messo in scena al Palais Garnier di Parigi nel 1971.
Sebbene la versione completa di "AOR" non sia mai stata pubblicata, è ragionevole supporre che la struttura risentisse della lezione di Karlheinz Stockhausen (il cui studio di Colonia Jarre frequenta nel 1968), imperniata su sinuose dissonanze e cangiantismi timbrici e tonali di inviluppi, come si evince dal movimento "BLEU" eseguito per la prima volta 31 anni dopo durante una sessione estemporanea al festival di Bourges.
Neanche Deserted Palace, primo album solista pubblicato l'anno dopo, più che altro una sorta di "libreria" di motivetti da videogame ante litteram, sample di effetti e jingle traballanti e stucchevoli suonati su un Ems e un organo Farfisa, si sottrae dall'essere nulla più che un mosaico di esperimenti che incubano tracce di suite future come "Windswept Canyon" con il suo andante epicamente nostalgico e i suoi refoli di vento siderale profetici di Oxygene, o "Music Box concerto", ove s'intravedono i germi melodici di "Equinoxe 8" e "Magnetic Fields 2".
Nello stesso solco si collocano anche i temi composti quell'anno per la colonna sonora del film di Jean Chapot "Le Granges Brulees", dove ricorrono ancora una volta grezze ariette pseudo-romantiche caracollanti tra ronzii e friniti elettrici, e persino un estratto di "Windswept Canyon" ribattezzato "L'Helycopter" (a sancire un'attitudine al riuso che più tardi diverrà quasi una prassi per Jarre), sul quale si staglia soltanto la sconsolata marcia di "La Chanson des Granges Brulees", nella quale per la prima volta una voce femminile rintuzza la frase melodica con vocalizzi angelici.
Quasi a voler esorcizzare l'ostracismo commerciale al quale questi lavori esplorativi lo condannano, negli anni che lo separano dall'exploit internazionale di Oxygene, Jarre accetta di misurarsi con il formato della canzone scrivendo testi e musiche per Christophe, Françoise Hardy, Gerard Le Norman e Patrick Juvet. "Le Mots Bleus" (traduzione: "Le parole blu"), scritto per Christophe e apparentemente dedicato alla futura compagna di vita Charlotte Rampling, oltre a riaffermare la dimensione sinestetica entro la quale si articola la gestazione della sua imminente sintassi audiovisuale, rappresenta anche l'unico vertice creativo di questo breve detour da paroliere al quale Jarre farà ritorno (in maniera opaca e disincantata) solo nel 2000 con l'album Metamorphoses. Con la direzione dello spettacolo messo in scena per il concerto di Christophe all'Olympia gli viene però data l'occasione di collaudare la sua idea "circense" e "felliniana" delle esibizioni live che avrebbe messo in cantiere in maniera ben più magniloquente negli anni 80: in particolare il pianoforte che si libra in volo durante la performance del cantante richiama le scene oniriche concepite da Salvador Dalì nel 1945 per il film "Spellbound" di Alfred Hitchcock.
Ma nel 1976 il piccolo studio allestito tra le mura della propria cucina è ormai pronto per la creazione dell'opus magnum. È il maitre a penser dell'hardware, il tecnico del suono e musicista Michel Geiss, contattato dopo una sua conferenza sulla "sintesi analogica", a soccorrere l'ardito ventottenne che con la sua consulenza predispone il palinsesto sonoro della prima suite concepita ed eseguita per tastiere e interfacce analogiche.
Nel corso dei 41 minuti della suite, registrata su un multitraccia a otto piste, l'aeriforme paesaggio sonoro di Oxygene (che d'ora in poi racchiuderà la cifra dello stile jarriano) si disvela nella fluttuante stratificazione verticale dei suoni vaporosi del VCS3, dei sovrannaturali cori magnetici del Mellotron (strumento dal brevetto italiano) dell'A.R.P e del Ems Synthi Aks. L'avveniristica versatilità dell'Aks (una sottile tastiera che comparirà in quasi tutti i successivi album fino a Metamorphoses) gli permette di emulare lo gnaulio umanoide del Theremin nella prima e terza parte, uno dei primi gioielli della strumentistica elettronica inventato dal russo Leon Theremin nel 1927, che Jarre utilizzerà dal vivo a partire dall'"Oxygene tour" del 1997. Quello che in "Windswept Canyon" agiva come traduzione "concreta" di uno stato auditivo e visivo ottenuta per mezzo di un'ingenua riproduzione artificiale del sibilo dell'aria, a suggerire lo spasmodico refluire del vento attraverso le viscere della terra (presago della musica di commento-evocazione della "ambient" che sarebbe stata codificata l'anno dopo da Brian Eno), sin dal primo atto di Oxygene si dilata invece a una più raffinata e coerente allegoria di una condizione panteistica contenuta nel tema dell'ossigeno inteso nel suo valore di intermediario elementale tra le componenti "presocratiche" del pianeta: aria, terra, acqua, fuoco. Un panismo cosmico derivante dal Dna della sua formazione culturale di studente appassionato dello "Sturm und Drang", di quella filosofia idealistica e goethiana afferente al motivo della sensucht, del panismo nordico di Novalis e Brentano, interesse confermato tra l'altro dallo studio comparativo sul "Faust" di Berlioz e Goethe realizzato per la sua laurea in lettere.
I sei movimenti nei quali si articola l'opera, reminiscenti di quelli del balletto fantaecologico "Aor", scandiscono, sui passaggi che fungono da transitino tracks (la più efficace quella presente tra la prima e la seconda parte con l'entrata in delay degli ululati siderali su un frinire pulsante di pulviscoli gassosi) l'evoluzione di un vitalismo ingenito in una fenomenologia mistico-organica, complice tanto di una "metafisica melodica" animata da essenziali motivi musicali che progrediscono nel traslato sonoro di forme viventi allo stato procariote, espresso a partire dall'attacco della prima parte, costruita su glaciali pulsazioni in crescendo al quale l'inserimento cosmico-nostalgico dell'Aks aggiunge un timbro di soprannaturalità e di poetica trascendenza; quanto di uno spirito di allusione visiva perseguita sulla scorta delle risorse pittoriche di effetti ambientali, potenziati dal riverbero dell'Ems e dell'eco del Revox, non più relegati al rango di accessori atmosferici (come l'ansito del vento in "One Of These Days" e "Shine On You Crazy Diamond" dei Pink Floyd), bensì di autentiche propaggini impressionistiche del lirismo in nuce nel leit motiv. Esemplari in questo senso il pullulare di fischi abissali che amplificano la sovratensione accumulata dal sordo martellio del basso e il fraseggio misterico che introduce all'esplosione del "main theme" della seconda parte; gli spiracoli sincronizzati in corrispondenza del termine della battuta chiave di cinque note nella quarta, misticheggiante variazione del più disimpegnato riff di "Pop Corn" di Gershon Kingsley; il geniale accostamento che apre e chiude la sesta parte, di ascendenza coloristica, tra il pigolio echeggiante dei gabbiani e lo stesso refolo ventoso che si tramuta nella risacca del mare contrappuntando la strofa come uno strumento autosufficiente, tanto che solo al termine del brano, isolando i due effetti, è possibile riconoscerne la natura di semplici "noises", tinte che si inverano al contatto dell'una con l'altra, proprio come accade nei quadri di Hartung e Soulages.
A un ascolto più attento, l'intero telaio armonico e tonale di Oxygene si configura infatti quale sorvegliata trasposizione degli accostamenti tra bande di colore e campiture di diversa tonalità, trattati come frequenze cromatiche capaci di suscitare l'idea del "mare", dell'"aria", della "terra", del "cielo". La copertina di Michel Granger, un globo terrestre scuoiato a rivelare un teschio umano, (quadro pre-esistente al disco e acquistato su suggerimento della Rampling), farà sia da contenitore grafico che da amplificazione plastica al portato visionario dell'album, fornendo una traccia di lettura simbolica dell'opera che ne incanala l'astrazione poetica nella macabra denuncia della questione ambientale che sarebbe diventata di stringente attualità solo nei decenni successivi. Le armonie disincarnate e volatili di "Oxygene part 4" e "Oxygene part 6" suonano come epitaffi a quell'armonia perduta tra umanità ed ecosistema che tornèrà a essere un soggetto ricorrente nella musica di artisti nordici come Björk e i Sigur Rós.
Ma il successo planetario di Oxygene, che con i suoi 15 milioni di copie resta ancora oggi l'album francese più venduto al mondo, non è che il primo capitolo di un'ideale trilogia "cyber-ecologica" che si esaurirà nell'arco di cinque anni con Equinoxe e Magnetic Fields.
Ispirato, a detta di Jarre, alle leggi dei movimenti dei pianeti dell'astronomo Keplero e all'alternanza del giorno e della notte, Equinoxe ripropone in una più meditata e solida architettura ritmico-armonica di 8 parti le tessiture melodiche e le progressioni impressionistiche di Oxygene. A un lato A più nebuloso e contemplativo in cui si avvicendano equorei quadri risonanti di tetri pittogrammi, come in "Equinoxe 2" dove tornano i garriti elettrici e la risacca del mare di "Oxygene part 6", fa da contraltare la declinazione ottimistica e liricamente panica del lato B, dominato dalla radiosità cosmica dell'anthem di "Equinoxe 5", deputato a diventare come "Oxygene 4" il singolo di traino dell'album. La sinfonia si apre su una prima aria rarefatta e maestosamente melanconica intessuta su un crescendo di sincopi crepuscolari, tale da sembrare un outtake della prima parte di Oxygene (la ritroveremo ammodernata e consolidata da timpani e rullanti orchestrali quindici anni dopo nella prima parte di Chronologie), delineando l'ouverture a duplice funzionamento simbolico della struttura alchemica entro cui Jarre raffina il quoziente ermetico-magistico dell'opera precedente, plasmandone l'estensione speculare.
"Equinoxe è concepito per riflettere il passaggio delle ventiquattro ore del giorno" rivela Jarre in un'intervista dell'epoca "poiché ogni parte dell'opera musicale rappresenta diversi momenti del giorno e della notte. Mi piacerebbe che l'ascoltatore usasse il mio album nelle varie fasi della sua giornata, o quando attraversi vari stati emotivi". La seconda parte di Equinoxe esala la stessa miasmatica oscurità della transustanziazione sonora dello stato alchemico della "nigredo", "la nerezza" dello spirito, anticamente ritenuta sintomatica della sovrabbondanza di atrabile nei fluidi corporei dell'uomo, manifestazione tipica dell'umore lunatico, melancolico, visionario, tappa antecedente ai successivi gradi della purificazione della materia (Durer la rappresenta nella famosa incisione della "Melanconia 1" sotto forma di un'eclissi e Duchamp nel "Grande Vetro" nella materia bruna della cioccolata).
Jarre dimostra di aver consumato la distanza che intercorre tra la mera sintonia con dei mood universali e la sua fattiva condivisione in termini di diegesi musicale. Musica e spirito narratologico si fondono nella purezza astratta di questo flusso sonoro originato dall'assunzione dei cangiantismi umorali quali forze motrici della prassi dell'introspezione artistica, connubio raramente rintracciabile in altri compositori che si limitano ad adagiarsi tecnocraticamente sui topoi (come nel caso della traslazione elettronica di Bach eseguita da Walter Carlos in "Switched-on Bach" senza alcuna personale indagine poetica).
Dal canto suo, Michel Geiss si ripropone nelle vesti di deus ex machina e soddisfa l'insaziabile lionese soppiantando il vocoder con le modifiche apportate a un Arp2600 in grado di riprodurre suoni "robotici" e di utilizzarli in base alle armonie desiderate. Nella seconda parte Jarre lo esibisce nell'emulazione di un gracidio corale che evoca cieli brumosi e nebbie ancestrali (un riferimento ai volatili di Durer?) che potrebbe essere quello di uno stormo in volo su un paesaggio spettrale, richiamandosi al "soundscape ectoplasmico" picchiettato dalle percussioni in slap-back echo già presenti in Oxygene, e nella quarta lo si ascolta gorgheggiare da tenore cibernetico sui riflussi del main theme che dissolve in una nebbia di coriandoli equorei (la presenza di conga elettronici poco prima del reprise finale aggiunge un tocco di arcana tribalità astrale alla versione eseguita per il video del 1979) per scendere infine alla rappresentazione di una lullaby di rane in chiusura di "Band In The Rain", introduzione all'ottava parte. A rinvigorire le tramature sonore interviene il rivoluzionario "Matrisequenzer 250", prodigio di praticità ed estro creativo che Geiss ricava dal potenziamento dell'Oberehim digital sequenzer, funzionale all'incremento e al controllo in tempo reale delle linee di basso che da "Equinoxe 3" fino alla ottava parte s'impennano nell'inquietudine di un andante favolistico, imperlato da soffusi gorgoglii d'alambicco alchemico, che tracima nell'esasperata e siderea vertigine della quarta parte, quasi a prefigurare i più turbolenti e ipnotici tempi della futura "trance music".
Scemata la nebulosa letargia panica della seconda parte, siglata dall'assolo dell'AKS sull'effetto risacca di "Oxygene 6" come chiave di volta con la successiva, e la vespertina piéce di attesa della terza campita da funerei rintocchi di campane oniriche, l'itinerario crono-emotivo dalla "nigredo" alla "rubedo" s'inarca improvvisamente nella plumbea fuga di sette note supportata da una coreografia ritmica di tamburelli sintetici firmata da cimbali riverberanti, impetuosa nell'innesco dello score centrale, quasi "cariocinetica" evoluzione del fraseggio di "Oxygene 2", introdotto dai lancinanti vortici del vocoder e dell'Arp 2600 sui quali la traccia si effonde in figurazioni esoterico-decadenti, prima di cedere il passo alla seconda tranche dell'album all'interno di un pluviale tableau vivant.
Il matrisequenzer tiene il gioco polifonico fino alla settima parte, celebrando musicalmente la bioritmica dell'esistenza diurna nella sua polimorfica animazione: la fase della "citrinitas"contrassegnata dal giallo, terz'ultimo momento del processo di ascesa dalla cupezza dell'informe al fulgore liberatore della luce e dell'idealità, si estrinseca a partire dal motivo epico-ancestrale di "Equinoxe 5", pseudo-liturgico inno in onore di un futuribile ecosistema high tech, maestosità della transizione dalla materia alla forma, condizione di totale interazione spirito-natura, articolato in duplice soluzione nella sesta e settima parte con l'apporto dell'immancabile Eko ComputeRhythm a costruire un intermezzo elettro-picaresco con la sesta (attesa briosa e disincantata con la sua esigua tornata di note Korg) e il ritorno dell'Aks come soprano ad accompagnamento del refrain trascinante e impavido della settima parte, riecheggiata sul recupero del clima d'inquietudine mistica della quarta. Difatti la propaggine del tema si esaurisce in un ultimo guazzo cromatico presago dell'acquisizione e superamento dell'estremo gradino verso il compimento dell'opus alchemico. Degna di rilievo la digressione cinematografica della "Band In The Rain" (una sorta di richiamo ipertestuale ad "Amarcord") in apertura di "Equinoxe 8", che attinge direttamente alle remote memorie "felliniane" delle orchestrine circensi dell'infanzia. Il respiro ritmico-sinfonico di Equinoxe viene premiato con la vendita di sette milioni di copie e la mise en scene del primo concerto tenuto il 14 luglio del 1979 a Parigi in Place de la Concorde, dove verrà eseguito insieme alle sei parti di Oxygene davanti a un milione di persone.
Per sua fortuna le onorificenze e i riconoscimenti che suggellano il trionfo commerciale, come il Grand Prix du Disque per Oxygene, la nomina a personaggio dell'anno per la rivista "People" e l'entrata nel Guinness dei Primati per il concerto con il più alto numero di spettatori, non lo distolgono dal proseguire la sua personale ricerca condotta in quell'enclave tra musica di massa e sperimentazione in cui artisti come i Kraftwerk e i Tangerine Dream si erano sterilmente arenati. Gli anni 80 si aprono all'insegna dei Fairlight, primo sintetizzatore-campionatore digitale di cui Jarre diviene privilegiato possessore insieme a Peter Gabriel. Magnetic Fields, portato a termine all'inizio del 1981, offre la terza incarnazione del concetto jarriano di un synth-pop pittorico ed esoterico che vive all'interno della dicotomia tra catchy tunes, composizioni orecchiabili a misura di radio, e avvolgenti suite polifoniche a tesi. Curiosamente simile alla suddivisione dei brani di "Medley" dei Pink Floyd, mentre sul lato A presenta una lunga cavalcata proto-techno di 17 minuti incalzata da arpeggi mesmerici e percussioni sferraglianti, dove voci psichedeliche e rombi di aerei rielaborati al Fairlight cospirano all'evocazione di misteriose vastità spazio-temporali, il lato B procede in maniera incerta e discontinua tra il giro di note sognante quanto infantile di "Magnetic Fields 2" sostenuta dal ritmo martellante di una macchina da scrivere campionata (rendendo omaggio alla lezione di Schaeffer), i rintocchi meccanici della terza parte, la melanconica ballata della quarta parte che, attraverso lo sfrecciare di un treno sulle rotaie, trascolora nella metatestuale incoerenza di una parodistica riproduzione di una "last rumba", avviata dal rumore della puntina di un juke-box che si adagia sul vinile.
Grazie alla mancanza di contenuti verbali forieri d'idee sovversive, in Asia la musica di Jarre viene preferita a quella sferzante dei gruppi rock anglofoni e trasmessa costantemente sulle radio locali, tanto da persuadere la Cina a invitarlo a tenere la prima tournée di un artista occidentale nella repubblica post-maoista. A fare da diario per immagini e suoni di questa avventura irripetibile vissuta nella primavera 1981 tra Shangai e Pechino sarà il video documentario di Andrew Piddington e il doppio album Concerts In China, pubblicato nel 1982.
In realtà per buona parte uno "studio album" (per via delle difficoltà tecniche incontrate durante le performance live), i due vinili ripercorrono alcuni dei momenti migliori dell'ancora esiguo repertorio jarriano trascurando Oxygene e indulgendo in riarrangiamenti pseudo-acustici e fughe jammistiche come quella in coda a "Magnetic Fields 2" e a "Equinoxe 7". Gemme a sé stanti al di fuori dei rimaneggiamenti di brani tradizionali cinesi come "Fishing Junks At Sunset" (erroneamente attribuito a Jarre sui credits del disco) sono le tracce composte ex novo con l'intrepido staccato di "Orient Express", il trascinante ricamo psichedelico di "Arpeggiator" (in seguito utilizzato da David Lean a commento di una focosa scena di "9 settimane e mezzo") e "Souvenir Of China", un'elegiaca istantanea concepita al ritorno dalla tournée introdotta dalle voci di bambini cinesi e cadenzata dagli scatti della polaroid (quelli stampati sulle sleeve covers del doppio album).
In un panorama musicale ormai in tumulto per la crescente emancipazione degli strumenti elettronici che contribuiscono a plasmare nuovi stili come quello obliquo tra art-rock, electro-dark e new wave di Depeche Mode, Dead Can Dance e dei Cocteau Twins, Jarre spinge lo sguardo ancora oltre, partorendo quello che resta forse l'ultimo suo lavoro significativo. Dalle ceneri di "Music For Supermakets", disco a tiratura unica il cui master verrà letteralmente bruciato al termine di una storica asta all'Hotel Drouot dove verrà acquistato da un certo signor Gerard (svegliatosi da un coma con la musica di "Souvenir Of China"), nasce infatti la fenice di Zoolook. Così come "Music For Supermarkets", composto da principio per fare da commento sonoro a una mostra di arte contemporanea, si pone implicitamente quale risposta alla filosofia ambient di Brian Eno, allo stesso modo Zoolook sfida apertamente "My Life In The Bush Of Ghosts" di Eno e Byrne, rimpolpando con una pleiade di voci registrate in giro per il mondo dall'etnologo Xavier Bellanger le scarne bozze del disco "opera d'arte" (la quinta parte si tramuterà in "Blah Blah Cafe" e la settima nella seconda parte di "Diva"), offerto in pasto ai pirati da Jarre in persona durante la sua unica messa in onda su una radio francese. Il disco segna anche la prima ampia collaborazione di Jarre con artisti provenienti dai più diversi ambiti della musica contemporanea: da Adrian Belew dei King Crimson che trapianta nelle distese di droni e pads di Jarre le potenti plettrate della sua chitarra elettrica, a Marcus Miller che scandisce le battute con il suo basso incombente, dalle batterie rutilanti di Yogi Horton ai fonemi alieni di Laurie Anderson che duettano con la parata allucinatoria dei campioni del Fairlight nel pezzo fanta-tribale di "Diva".
Se nell'opera di Eno e Byrne, come nei dischi coevi degli Art Of Noise e degli Yello, le voci umane vengono manipolate alla stregua di effetti "perturbanti" intorno ai quali edificare brani irrisolti tra canzone teatrale e divertissement dadaista, in Zoolook sono trattate come veri e propri strumenti riproducendo bassi, fiati, archi e arpeggi fino a evocare un'orchestra fonetico-multietnica nel capolavoro dal dinamismo post-wagneriano e cinematico di "Ethnicolor", una suite di circa dodici minuti suddivisa in tre movimenti che costituisce l'acme creativo del disco e di tutta la carriera di Jarre.
Con il monumentale concerto di Houston del 5 aprile 1986 celebrato per i 25 anni della Nasa e i 150 anni della città e del Texas, ha inizio una ventennale parabola di mega-live che porteranno Jarre a subordinare sempre più l'attività di certosino compositore da studio a quella di "Fitzcarraldo" di maestosi happening multimediali che si chiuderà con il concerto tra le dune di Merzouga del 2006.
A testimoniare questa nuova gerarchia di priorità nel modus operandi è la genesi stessa dell'album Rendez-Vous, che viene frettolosamente registrato in poco più di due mesi, riciclando e ampliando brani precedenti come la terza traccia di "Music for Supermarkets", uno spasmodico arpeggio in odore di cosmic music, reinserita quale terzo movimento di "Rendez Vous 5"; l'assillante accordo di due note della canzone "La Belle e la Bete" composto nel 1975 per Gerard Le Norman, rivalutato come fondamenta dell'imponente costruzione operistica di matrice "orffiana" di "Rendez Vous 2", intervallata dall'assolo minimale e struggente modulato dal freddo barrito dell'italiano Elka Synthex, strumento con il quale viene eseguito anche il tema di "Rendez Vous 3" riesumato da "La Mort du Cygne", altra canzone scritta per Le Norman; la frase melodica del famoso "Rendez Vous 4", evidente rivisitazione di quella scandita dalla voce sintetizzata di "Zoolookologie".
Incerto tra barocchismi futuristici, ibridazioni elettro-orchestrali e pseudo-jazzistiche, il disco risulta stilisticamente incompiuto e vive più delle sue parti che come lavoro unitario, fondandosi sul concept effimero del sontuoso concerto commemorativo tenuto tra i grattacieli in costruzione del Downtown di Houston in onore degli astronauti morti a bordo del Challenger pochi mesi prima (resta isolata la toccante parentesi ambient-jazz di "Ron's Piece", dedicata all'astronauta e sassofonista scomparso Ron McNair). La seconda entrata nel Guinness dei primati con un milione mezzo di spettatori sparsi ovunque intorno all'immenso drive-in sovrastato da bufere pirotecniche, gli vale un secondo allestimento per il concerto dedicato al papa in occasione della visita nella sua città natale di Lione nell'ottobre dello stesso anno.
Anche i successivi Revolutions, Waiting For Cousteau e Chronologie rispettano questa nuova agenda creativa, adeguandosi con esiti alterni al costume consolidato di affiancare lunghe suite elettro-acustiche dal respiro epico a brani in formato radio-edit oscillanti tra formule pop-rock e world-music. All'ennesima suite neo-sinfonica ripartita sul lato A in una "Ouverture" e tre parti di "Industrial Revolution" articolata sui clangori e le sonorità ferrose del Roland D-50 a evocazione dei ritmi serrati e implacabili dell'era industriale, fa da appendice "London Kid", una dolciastra ballata vintage-rock sostenuta dalla chitarra elettrica di Hank Marvin, leader dei britannici Shadow, ammirati da Jarre ai tempi dei suoi Mystere IV, mentre sul lato B, lanciato da un lungo assolo di flauto turco, "Revolutions" scalpita dietro un'alienata voce vocoderizzata in un ringhiante techno-rock che ben si adatta alle coreografie di danzatori dervisci e gigantografie pop ideate per il visionario concerto nei Docklands di Londra nelle piovose notti dell'ottobre 1988.
Indossati i panni del regista cinematografico più che del compositore, il live londinese segna il coronamento dell'ambizione a raggiungere il punto di fusione tra arti scenografiche e musicali, con la cura maniacale del design del palco galleggiante equipaggiato di tastiere e strumentazioni ispirate all'estetica del futuro decadente di "Blade Runner" e quello organico-barocco di "Dune", nonostante per Jarre l'intera produzione dell'evento avversata da intemperie e beghe burocratiche equivalga in realtà a "girare 'Apocalypse Now' in una notte".
Nel Bastille Day del 1990, "Paris La Defense - Une ville en concert", oltre a marcare la terza entrata nel guinness dei primati con i suoi due milioni e mezzo di pubblico, rappresenta anche l'ultimo riuscito concerto concepito a misura di città. L'approccio da "land-artist" votato a unire passato e futuro già applicato a Houston, Lione e Londra, si esplica nella simbolica integrazione del nuovo quartiere della Defense nel vecchio contesto urbano messo in comunicazione a distanza con l'Arch de Triomphe grazie alla collocazione intermedia del palco piramidale dal quale Jarre diffonde i cavalli di battaglia della sua discografia, tra un tripudio di fuochi d'artificio, grattacieli convertiti in organismi multicolori e pupazzi caraibici danzanti.
I tre nuovi brani del disco Waiting For Cousteau dedicati alla barca "Calypso" dell'oceanografo Jaques-Yves Cousteau coprono solo un quarto dell'intera performance, trascinando inesorabilmente il live tra il crescendo di furiosa ebbrezza percussiva degli steel drum suonati dagli Amoco Renegade di Trinidad verso la sua caleidoscopica apoteosi finale. Audace surrogato della classica suite è invece la traccia eponima dell'album, criptica quanto oceanica "audiosfera" ambient di 46 minuti in cui lugubri echi di piano ondulano sopra incommensurabili estensioni di effetti e droni ribollenti (memore di questa enigmatica perla jarriana sarà "Somnium" di Robert Rich).
"Equinoxe 2.0" potrebbe invece chiamarsi Chronologie, concept album nato del 1993 sulla scorta del libro di Stephen Hawking "Breve storia del Tempo" (anche se in realtà "Chronologie 4" e "Chronologie 5" erano stati commissionati dalla compagnia svizzera di orologi Swatch). Le otto parti di questa suite stilisticamente eterogenea dalle altalenanti mire narrative, che si snoda tra intermezzi audio-scenici di orologi scricchiolanti, aggiorna il capolavoro del 1978 alle nuove tendenze musicali degli anni 90, intersecando la grandiosa apertura dagli accenti da "space opera" della prima parte con la "dance" incalzante della seconda, dove Jarre sembra parodiare se stesso con esagitati staccati di organo epigoni di quello di "Equinoxe 4", e con quella più mesta e rigorosa della sesta, che a suo modo deriva dal motivo mesmerico di "Magnetic Fields 4".
Ad eccezione della chitarra elettrica di Patrick Rondat, l'album è governato interamente dal suono analogico di vecchie e nuove tastiere, inversione di rotta confermata quattro anni dopo con il manieristico sequel di Oxygene. Nel mezzo si situa "Europe in concert", il primo tentativo di Jarre di abbandonare la formula ormai stanca del "City in concert" imbarcandosi in un vero e proprio tour senza rinunciare al gigantismo e ai mirabilia ormai diventati il logo della sua "azienda" multimediale.
Nel 1995 Jarre si concede il suo terzo Bastille Day, stavolta ai piedi della Tour Eiffel, limitandosi a riarrangiare il vecchio repertorio insieme ai più recenti brani di Chronologie.
Ben poco dell'innocente minimalismo e delle ammalianti intuizioni sui generis che avevano contribuito alla fortuna atemporale di Oxygene sopravvivono nelle successive sette parti di Oxygene 7-13, pubblicato nel 1997 e dedicato alla memoria di Pierre Schaeffer, morto due anni prima, prosieguo revisionista della suite del 1976 che indugia tra commoventi autocitazioni e reprise palmari dei vecchi temi, come la melodia piangente dell'Aks di "Oxygene 1", incastonato nella nona parte, l'onirico formato radiofonico di "Oxygene 4", replicata in chiave trance in "Oxygene 8" (4+4) e il ritmo traballante del rythmin' computer della malinconica "Oxygene 6", sul quale si chiude la tredicesima (rasentando tuttavia il plagio con le 4 note di "Oxygene 7" tremendamente reminiscenti di "Blade Runner End Titles" di Vangelis). Michel Geiss fa qui la sua ultima comparsa nei credits, aprendo con il suo congedo dal team jarriano una lunga sequela di defezioni, a partire dalla moglie Charlotte, fino ad allora musa e fotografa ufficiale di tutti i suoi concerti, a molti dei suoi collaboratori storici, compreso Francis Dreyfus, il produttore discografico di musica jazz che aveva pensato di vendere non più di 50.000 copie di quel disco senza canzoni battezzato col nome di un gas.
La quarta entrata nel guinness dei primati con i tre milioni e mezzo di pubblico presente alla data moscovita dell'"Oxygene tour" pone il sigillo alla fine di un'era.
In questo senso il ritorno alla dimensione canora di Metamorphoses vorrebbe fungere da emblematica tabula rasa da cui principiare la seconda fase di una carriera già quasi trentennale. Ma il faraonico showcase del disco nel fantasmagorico concerto tenuto davanti alle piramidi di Giza nella notte del 1° gennaio 2000 ha quasi il valore di una profezia: una fitta nebbia manda letteralmente in fumo mesi di lavoro condotti sulle proiezioni destinate alle piramidi retrostanti il palco. E' la bruma che cala sulla vita artistica e privata di Jarre. Le molteplici partecipazioni di artisti femminili al disco, da Natacha Atlas, che gorgheggia nella lunga single track "C'est la vie", tra archi arabeggianti svolazzanti su arpeggi in salsa dance, a Laurie Anderson che ricompare in "Je me souviens", stavolta per prodursi in una notturna enumeratio di pittogrammi fonetici in uno dei pochi momenti originali del disco, al violino di Sharon Corr nella kraftwerkiana "Rendez Vous a Paris" non bastano a risollevare le sorti di un album in cui i testi difettano di una vera coesione poetica e la musica fatica a tratteggiare con la stessa intensità le atmosfere trascendenti di un tempo. Fa capitolo a sé "Miss Moon", curiosamente un brano dark-chill out privo di parole che è anche un'ultima degna prova di musica concreta con il suono dell'innaffiatore che regge come un metronomo tutta la sezione ritmica sotto i virtuosismi incorporei della voce di Dierdre Dubois.
Passeranno sette anni prima che Jarre pubblichi un nuovo album in studio, smarrendosi tra scialbi side project, come l'abortito album di "Rendez Vous In Space", concepito insieme al giapponese Tetsuya Komuro e nato e defunto nel capodanno del 2001 nel concerto di Okinawa; Geometry Of Love, del 2003, una raccolta di stentati pezzi lounge registrato al computer con soft synth per il "Vip room", club parigino di Jean Roch; "Interior Music", tedioso assemblaggio di effetti per la catena Bang&Olufsen; i vetero-avanguardismi del live di "Printemps de Bourges" del 2002, e le algide improvvisazioni electro-jazz di "Session 2000", pubblicati per risolvere il contratto con Dreyfus.
Nell'epoca degli Air, dei Daft Punk, di Moby e dei Röyksöpp, ai quali Jarre ha idealmente passato il testimone, nessuna di queste opere è più in grado di tenere alto il vessillo dell'"alfiere della musica elettronica". Dopo il lancio dell'olofonia con il suono in 5.1 di "AERO", antologia di brani ripescati tra Oxygene e Chronologie, con l'aggiunta della rielaborazione alla Robert Miles di "Je me Souviens" nella title track (la tournée prevista per la promozione si perderà per strada, riducendosi a due date tra le mura della Città Proibita di Pechino nel 2004 e il porto di Danzica nel 2005), Teo & Tea, basato nelle intenzioni sull'evoluzione di un rapporto amoroso, è l'atto conclusivo di un processo di auto-negazione dettato dall'insostenibile peso della propria leggenda. L'infantile minimalismo della datata e stucchevole eurodance del singolo non è che la conseguenza di una sindrome di "Dorian Gray" che a tratti riporta Jarre sulla strada di "Deserted Palace", tanto sgraziati ed esigui sono brani come "Gossip", "Chatterbox" e "In The Mood For You" da ricordare i primi cimenti con l'Ems e il Farfisa, priva però della ludica purezza del giovane musicista in avanscoperta (e infatti quasi tutti i suoni e i groove sono preset del nuovo Roland MC808 programmato dal dj Tim Hufken).
Destato di soprassalto dalla catastrofe commerciale, Jarre corre ai ripari rifugiandosi per la seconda volta nel passato. La versione rimasterizzata di Oxygene, rieseguita per la prima volta in maniera filologica in tutte le sue parti con le "vecchie signore" analogiche nel settembre dello stesso anno insieme ai fidati Francis Rimbert, Dominique Perrier e Claude Samard, ha l'agrodolce sapore di un'improrogabile auto-commemorazione. I concerti che seguiranno dal Teatro Marigny fino al vecchio/nuovo tour "Indoors" 2009-2010 nelle arene delle città europee dilatano all'inverosimile il tempo di una liturgia lapalissiana. Esauriti i contenuti e la spinta propulsiva dell'epoca pionieristica, la rivoluzione musicale di Jarre, come tutti i grandi sommovimenti dell'arte, si è fossilizzata negli strati della storia culturale, lasciando in superficie solo il performer, libero di continuare a trastullarsi con i propri giocattoli. Un po' come quel piccolo lionese che dal balcone di casa sognava le meraviglie del circo inseguendone i suoni perduti nell'aria.
Nel 1969 questa ostinazione a sconfinare dalla "ridotta" della musica tradizionale gli apre infine le porte del "Groupe de Recherches Musicales (GRM)" di Parigi fondato da Pierre Schaeffer nel 1958, guru della della "musica concreta" che al cerebralismo della composizione scritta oppone l'iperrealistica potenza evocativa del suono puro. La figura di Schaeffer viene a colmare il vuoto artistico lasciato dal padre naturale, celebrando i natali della carriera di compositore di Jarre, che nello stesso anno darà alle stampe il suo primo 45 giri di musica "concreta": sulle facciate del vinile "La Cage" e "Eros Machine", con le loro micromelodie singhiozzanti e metalliche soffocate da gemiti orgasmici, aritmie percussive e ragli di ingranaggi (che anticipano nel codice sonoro le atmosfere biomeccanoidi dei quadri di H.R. Giger) si presentano come ideali manifesti di una nuova quanto estrema concezione estetica fondata sul "Nullpunkt" della musica convenzionale, risospinta in quell'oscuro utero cosmico in cui l'unica differenza tra il rumore e il suono risiede nell'intenzione con la quale viene prodotto. Il singolo vende una manciata di copie e, come avverrà anche per il successivo album Deserted Palace del 1972, circoscrive la sua importanza all'essere il proemio in sordina a quella che diverrà in seguito un'inclinazione sistematica a modellare involucri atmosferici mediante ingegnosi puzzle di effetti (precorrendo la scuola "noise music") nei quali poter incapsulare eterei ritornelli da easy listening.
Di lì a due anni, la nuova vena stilistica corroborata dall'uso esponenziale di primitivi sintetizzatori scoperti presso il Gruppo di Ricerca. come l'Ems Synthi Aks e il celeberrimo Moog modular, si esprimerà in quella che è la prima composizione per strumenti elettronici ad avere l'onore di accompagnare un balletto d'opera in sette movimenti, ispirata ai colori dell'arcobaleno e messo in scena al Palais Garnier di Parigi nel 1971.
Sebbene la versione completa di "AOR" non sia mai stata pubblicata, è ragionevole supporre che la struttura risentisse della lezione di Karlheinz Stockhausen (il cui studio di Colonia Jarre frequenta nel 1968), imperniata su sinuose dissonanze e cangiantismi timbrici e tonali di inviluppi, come si evince dal movimento "BLEU" eseguito per la prima volta 31 anni dopo durante una sessione estemporanea al festival di Bourges.
Neanche Deserted Palace, primo album solista pubblicato l'anno dopo, più che altro una sorta di "libreria" di motivetti da videogame ante litteram, sample di effetti e jingle traballanti e stucchevoli suonati su un Ems e un organo Farfisa, si sottrae dall'essere nulla più che un mosaico di esperimenti che incubano tracce di suite future come "Windswept Canyon" con il suo andante epicamente nostalgico e i suoi refoli di vento siderale profetici di Oxygene, o "Music Box concerto", ove s'intravedono i germi melodici di "Equinoxe 8" e "Magnetic Fields 2".
Nello stesso solco si collocano anche i temi composti quell'anno per la colonna sonora del film di Jean Chapot "Le Granges Brulees", dove ricorrono ancora una volta grezze ariette pseudo-romantiche caracollanti tra ronzii e friniti elettrici, e persino un estratto di "Windswept Canyon" ribattezzato "L'Helycopter" (a sancire un'attitudine al riuso che più tardi diverrà quasi una prassi per Jarre), sul quale si staglia soltanto la sconsolata marcia di "La Chanson des Granges Brulees", nella quale per la prima volta una voce femminile rintuzza la frase melodica con vocalizzi angelici.
Quasi a voler esorcizzare l'ostracismo commerciale al quale questi lavori esplorativi lo condannano, negli anni che lo separano dall'exploit internazionale di Oxygene, Jarre accetta di misurarsi con il formato della canzone scrivendo testi e musiche per Christophe, Françoise Hardy, Gerard Le Norman e Patrick Juvet. "Le Mots Bleus" (traduzione: "Le parole blu"), scritto per Christophe e apparentemente dedicato alla futura compagna di vita Charlotte Rampling, oltre a riaffermare la dimensione sinestetica entro la quale si articola la gestazione della sua imminente sintassi audiovisuale, rappresenta anche l'unico vertice creativo di questo breve detour da paroliere al quale Jarre farà ritorno (in maniera opaca e disincantata) solo nel 2000 con l'album Metamorphoses. Con la direzione dello spettacolo messo in scena per il concerto di Christophe all'Olympia gli viene però data l'occasione di collaudare la sua idea "circense" e "felliniana" delle esibizioni live che avrebbe messo in cantiere in maniera ben più magniloquente negli anni 80: in particolare il pianoforte che si libra in volo durante la performance del cantante richiama le scene oniriche concepite da Salvador Dalì nel 1945 per il film "Spellbound" di Alfred Hitchcock.
Ma nel 1976 il piccolo studio allestito tra le mura della propria cucina è ormai pronto per la creazione dell'opus magnum. È il maitre a penser dell'hardware, il tecnico del suono e musicista Michel Geiss, contattato dopo una sua conferenza sulla "sintesi analogica", a soccorrere l'ardito ventottenne che con la sua consulenza predispone il palinsesto sonoro della prima suite concepita ed eseguita per tastiere e interfacce analogiche.
Nel corso dei 41 minuti della suite, registrata su un multitraccia a otto piste, l'aeriforme paesaggio sonoro di Oxygene (che d'ora in poi racchiuderà la cifra dello stile jarriano) si disvela nella fluttuante stratificazione verticale dei suoni vaporosi del VCS3, dei sovrannaturali cori magnetici del Mellotron (strumento dal brevetto italiano) dell'A.R.P e del Ems Synthi Aks. L'avveniristica versatilità dell'Aks (una sottile tastiera che comparirà in quasi tutti i successivi album fino a Metamorphoses) gli permette di emulare lo gnaulio umanoide del Theremin nella prima e terza parte, uno dei primi gioielli della strumentistica elettronica inventato dal russo Leon Theremin nel 1927, che Jarre utilizzerà dal vivo a partire dall'"Oxygene tour" del 1997. Quello che in "Windswept Canyon" agiva come traduzione "concreta" di uno stato auditivo e visivo ottenuta per mezzo di un'ingenua riproduzione artificiale del sibilo dell'aria, a suggerire lo spasmodico refluire del vento attraverso le viscere della terra (presago della musica di commento-evocazione della "ambient" che sarebbe stata codificata l'anno dopo da Brian Eno), sin dal primo atto di Oxygene si dilata invece a una più raffinata e coerente allegoria di una condizione panteistica contenuta nel tema dell'ossigeno inteso nel suo valore di intermediario elementale tra le componenti "presocratiche" del pianeta: aria, terra, acqua, fuoco. Un panismo cosmico derivante dal Dna della sua formazione culturale di studente appassionato dello "Sturm und Drang", di quella filosofia idealistica e goethiana afferente al motivo della sensucht, del panismo nordico di Novalis e Brentano, interesse confermato tra l'altro dallo studio comparativo sul "Faust" di Berlioz e Goethe realizzato per la sua laurea in lettere.
I sei movimenti nei quali si articola l'opera, reminiscenti di quelli del balletto fantaecologico "Aor", scandiscono, sui passaggi che fungono da transitino tracks (la più efficace quella presente tra la prima e la seconda parte con l'entrata in delay degli ululati siderali su un frinire pulsante di pulviscoli gassosi) l'evoluzione di un vitalismo ingenito in una fenomenologia mistico-organica, complice tanto di una "metafisica melodica" animata da essenziali motivi musicali che progrediscono nel traslato sonoro di forme viventi allo stato procariote, espresso a partire dall'attacco della prima parte, costruita su glaciali pulsazioni in crescendo al quale l'inserimento cosmico-nostalgico dell'Aks aggiunge un timbro di soprannaturalità e di poetica trascendenza; quanto di uno spirito di allusione visiva perseguita sulla scorta delle risorse pittoriche di effetti ambientali, potenziati dal riverbero dell'Ems e dell'eco del Revox, non più relegati al rango di accessori atmosferici (come l'ansito del vento in "One Of These Days" e "Shine On You Crazy Diamond" dei Pink Floyd), bensì di autentiche propaggini impressionistiche del lirismo in nuce nel leit motiv. Esemplari in questo senso il pullulare di fischi abissali che amplificano la sovratensione accumulata dal sordo martellio del basso e il fraseggio misterico che introduce all'esplosione del "main theme" della seconda parte; gli spiracoli sincronizzati in corrispondenza del termine della battuta chiave di cinque note nella quarta, misticheggiante variazione del più disimpegnato riff di "Pop Corn" di Gershon Kingsley; il geniale accostamento che apre e chiude la sesta parte, di ascendenza coloristica, tra il pigolio echeggiante dei gabbiani e lo stesso refolo ventoso che si tramuta nella risacca del mare contrappuntando la strofa come uno strumento autosufficiente, tanto che solo al termine del brano, isolando i due effetti, è possibile riconoscerne la natura di semplici "noises", tinte che si inverano al contatto dell'una con l'altra, proprio come accade nei quadri di Hartung e Soulages.
A un ascolto più attento, l'intero telaio armonico e tonale di Oxygene si configura infatti quale sorvegliata trasposizione degli accostamenti tra bande di colore e campiture di diversa tonalità, trattati come frequenze cromatiche capaci di suscitare l'idea del "mare", dell'"aria", della "terra", del "cielo". La copertina di Michel Granger, un globo terrestre scuoiato a rivelare un teschio umano, (quadro pre-esistente al disco e acquistato su suggerimento della Rampling), farà sia da contenitore grafico che da amplificazione plastica al portato visionario dell'album, fornendo una traccia di lettura simbolica dell'opera che ne incanala l'astrazione poetica nella macabra denuncia della questione ambientale che sarebbe diventata di stringente attualità solo nei decenni successivi. Le armonie disincarnate e volatili di "Oxygene part 4" e "Oxygene part 6" suonano come epitaffi a quell'armonia perduta tra umanità ed ecosistema che tornèrà a essere un soggetto ricorrente nella musica di artisti nordici come Björk e i Sigur Rós.
Ma il successo planetario di Oxygene, che con i suoi 15 milioni di copie resta ancora oggi l'album francese più venduto al mondo, non è che il primo capitolo di un'ideale trilogia "cyber-ecologica" che si esaurirà nell'arco di cinque anni con Equinoxe e Magnetic Fields.
Ispirato, a detta di Jarre, alle leggi dei movimenti dei pianeti dell'astronomo Keplero e all'alternanza del giorno e della notte, Equinoxe ripropone in una più meditata e solida architettura ritmico-armonica di 8 parti le tessiture melodiche e le progressioni impressionistiche di Oxygene. A un lato A più nebuloso e contemplativo in cui si avvicendano equorei quadri risonanti di tetri pittogrammi, come in "Equinoxe 2" dove tornano i garriti elettrici e la risacca del mare di "Oxygene part 6", fa da contraltare la declinazione ottimistica e liricamente panica del lato B, dominato dalla radiosità cosmica dell'anthem di "Equinoxe 5", deputato a diventare come "Oxygene 4" il singolo di traino dell'album. La sinfonia si apre su una prima aria rarefatta e maestosamente melanconica intessuta su un crescendo di sincopi crepuscolari, tale da sembrare un outtake della prima parte di Oxygene (la ritroveremo ammodernata e consolidata da timpani e rullanti orchestrali quindici anni dopo nella prima parte di Chronologie), delineando l'ouverture a duplice funzionamento simbolico della struttura alchemica entro cui Jarre raffina il quoziente ermetico-magistico dell'opera precedente, plasmandone l'estensione speculare.
"Equinoxe è concepito per riflettere il passaggio delle ventiquattro ore del giorno" rivela Jarre in un'intervista dell'epoca "poiché ogni parte dell'opera musicale rappresenta diversi momenti del giorno e della notte. Mi piacerebbe che l'ascoltatore usasse il mio album nelle varie fasi della sua giornata, o quando attraversi vari stati emotivi". La seconda parte di Equinoxe esala la stessa miasmatica oscurità della transustanziazione sonora dello stato alchemico della "nigredo", "la nerezza" dello spirito, anticamente ritenuta sintomatica della sovrabbondanza di atrabile nei fluidi corporei dell'uomo, manifestazione tipica dell'umore lunatico, melancolico, visionario, tappa antecedente ai successivi gradi della purificazione della materia (Durer la rappresenta nella famosa incisione della "Melanconia 1" sotto forma di un'eclissi e Duchamp nel "Grande Vetro" nella materia bruna della cioccolata).
Jarre dimostra di aver consumato la distanza che intercorre tra la mera sintonia con dei mood universali e la sua fattiva condivisione in termini di diegesi musicale. Musica e spirito narratologico si fondono nella purezza astratta di questo flusso sonoro originato dall'assunzione dei cangiantismi umorali quali forze motrici della prassi dell'introspezione artistica, connubio raramente rintracciabile in altri compositori che si limitano ad adagiarsi tecnocraticamente sui topoi (come nel caso della traslazione elettronica di Bach eseguita da Walter Carlos in "Switched-on Bach" senza alcuna personale indagine poetica).
Dal canto suo, Michel Geiss si ripropone nelle vesti di deus ex machina e soddisfa l'insaziabile lionese soppiantando il vocoder con le modifiche apportate a un Arp2600 in grado di riprodurre suoni "robotici" e di utilizzarli in base alle armonie desiderate. Nella seconda parte Jarre lo esibisce nell'emulazione di un gracidio corale che evoca cieli brumosi e nebbie ancestrali (un riferimento ai volatili di Durer?) che potrebbe essere quello di uno stormo in volo su un paesaggio spettrale, richiamandosi al "soundscape ectoplasmico" picchiettato dalle percussioni in slap-back echo già presenti in Oxygene, e nella quarta lo si ascolta gorgheggiare da tenore cibernetico sui riflussi del main theme che dissolve in una nebbia di coriandoli equorei (la presenza di conga elettronici poco prima del reprise finale aggiunge un tocco di arcana tribalità astrale alla versione eseguita per il video del 1979) per scendere infine alla rappresentazione di una lullaby di rane in chiusura di "Band In The Rain", introduzione all'ottava parte. A rinvigorire le tramature sonore interviene il rivoluzionario "Matrisequenzer 250", prodigio di praticità ed estro creativo che Geiss ricava dal potenziamento dell'Oberehim digital sequenzer, funzionale all'incremento e al controllo in tempo reale delle linee di basso che da "Equinoxe 3" fino alla ottava parte s'impennano nell'inquietudine di un andante favolistico, imperlato da soffusi gorgoglii d'alambicco alchemico, che tracima nell'esasperata e siderea vertigine della quarta parte, quasi a prefigurare i più turbolenti e ipnotici tempi della futura "trance music".
Scemata la nebulosa letargia panica della seconda parte, siglata dall'assolo dell'AKS sull'effetto risacca di "Oxygene 6" come chiave di volta con la successiva, e la vespertina piéce di attesa della terza campita da funerei rintocchi di campane oniriche, l'itinerario crono-emotivo dalla "nigredo" alla "rubedo" s'inarca improvvisamente nella plumbea fuga di sette note supportata da una coreografia ritmica di tamburelli sintetici firmata da cimbali riverberanti, impetuosa nell'innesco dello score centrale, quasi "cariocinetica" evoluzione del fraseggio di "Oxygene 2", introdotto dai lancinanti vortici del vocoder e dell'Arp 2600 sui quali la traccia si effonde in figurazioni esoterico-decadenti, prima di cedere il passo alla seconda tranche dell'album all'interno di un pluviale tableau vivant.
Il matrisequenzer tiene il gioco polifonico fino alla settima parte, celebrando musicalmente la bioritmica dell'esistenza diurna nella sua polimorfica animazione: la fase della "citrinitas"contrassegnata dal giallo, terz'ultimo momento del processo di ascesa dalla cupezza dell'informe al fulgore liberatore della luce e dell'idealità, si estrinseca a partire dal motivo epico-ancestrale di "Equinoxe 5", pseudo-liturgico inno in onore di un futuribile ecosistema high tech, maestosità della transizione dalla materia alla forma, condizione di totale interazione spirito-natura, articolato in duplice soluzione nella sesta e settima parte con l'apporto dell'immancabile Eko ComputeRhythm a costruire un intermezzo elettro-picaresco con la sesta (attesa briosa e disincantata con la sua esigua tornata di note Korg) e il ritorno dell'Aks come soprano ad accompagnamento del refrain trascinante e impavido della settima parte, riecheggiata sul recupero del clima d'inquietudine mistica della quarta. Difatti la propaggine del tema si esaurisce in un ultimo guazzo cromatico presago dell'acquisizione e superamento dell'estremo gradino verso il compimento dell'opus alchemico. Degna di rilievo la digressione cinematografica della "Band In The Rain" (una sorta di richiamo ipertestuale ad "Amarcord") in apertura di "Equinoxe 8", che attinge direttamente alle remote memorie "felliniane" delle orchestrine circensi dell'infanzia. Il respiro ritmico-sinfonico di Equinoxe viene premiato con la vendita di sette milioni di copie e la mise en scene del primo concerto tenuto il 14 luglio del 1979 a Parigi in Place de la Concorde, dove verrà eseguito insieme alle sei parti di Oxygene davanti a un milione di persone.
Per sua fortuna le onorificenze e i riconoscimenti che suggellano il trionfo commerciale, come il Grand Prix du Disque per Oxygene, la nomina a personaggio dell'anno per la rivista "People" e l'entrata nel Guinness dei Primati per il concerto con il più alto numero di spettatori, non lo distolgono dal proseguire la sua personale ricerca condotta in quell'enclave tra musica di massa e sperimentazione in cui artisti come i Kraftwerk e i Tangerine Dream si erano sterilmente arenati. Gli anni 80 si aprono all'insegna dei Fairlight, primo sintetizzatore-campionatore digitale di cui Jarre diviene privilegiato possessore insieme a Peter Gabriel. Magnetic Fields, portato a termine all'inizio del 1981, offre la terza incarnazione del concetto jarriano di un synth-pop pittorico ed esoterico che vive all'interno della dicotomia tra catchy tunes, composizioni orecchiabili a misura di radio, e avvolgenti suite polifoniche a tesi. Curiosamente simile alla suddivisione dei brani di "Medley" dei Pink Floyd, mentre sul lato A presenta una lunga cavalcata proto-techno di 17 minuti incalzata da arpeggi mesmerici e percussioni sferraglianti, dove voci psichedeliche e rombi di aerei rielaborati al Fairlight cospirano all'evocazione di misteriose vastità spazio-temporali, il lato B procede in maniera incerta e discontinua tra il giro di note sognante quanto infantile di "Magnetic Fields 2" sostenuta dal ritmo martellante di una macchina da scrivere campionata (rendendo omaggio alla lezione di Schaeffer), i rintocchi meccanici della terza parte, la melanconica ballata della quarta parte che, attraverso lo sfrecciare di un treno sulle rotaie, trascolora nella metatestuale incoerenza di una parodistica riproduzione di una "last rumba", avviata dal rumore della puntina di un juke-box che si adagia sul vinile.
Grazie alla mancanza di contenuti verbali forieri d'idee sovversive, in Asia la musica di Jarre viene preferita a quella sferzante dei gruppi rock anglofoni e trasmessa costantemente sulle radio locali, tanto da persuadere la Cina a invitarlo a tenere la prima tournée di un artista occidentale nella repubblica post-maoista. A fare da diario per immagini e suoni di questa avventura irripetibile vissuta nella primavera 1981 tra Shangai e Pechino sarà il video documentario di Andrew Piddington e il doppio album Concerts In China, pubblicato nel 1982.
In realtà per buona parte uno "studio album" (per via delle difficoltà tecniche incontrate durante le performance live), i due vinili ripercorrono alcuni dei momenti migliori dell'ancora esiguo repertorio jarriano trascurando Oxygene e indulgendo in riarrangiamenti pseudo-acustici e fughe jammistiche come quella in coda a "Magnetic Fields 2" e a "Equinoxe 7". Gemme a sé stanti al di fuori dei rimaneggiamenti di brani tradizionali cinesi come "Fishing Junks At Sunset" (erroneamente attribuito a Jarre sui credits del disco) sono le tracce composte ex novo con l'intrepido staccato di "Orient Express", il trascinante ricamo psichedelico di "Arpeggiator" (in seguito utilizzato da David Lean a commento di una focosa scena di "9 settimane e mezzo") e "Souvenir Of China", un'elegiaca istantanea concepita al ritorno dalla tournée introdotta dalle voci di bambini cinesi e cadenzata dagli scatti della polaroid (quelli stampati sulle sleeve covers del doppio album).
In un panorama musicale ormai in tumulto per la crescente emancipazione degli strumenti elettronici che contribuiscono a plasmare nuovi stili come quello obliquo tra art-rock, electro-dark e new wave di Depeche Mode, Dead Can Dance e dei Cocteau Twins, Jarre spinge lo sguardo ancora oltre, partorendo quello che resta forse l'ultimo suo lavoro significativo. Dalle ceneri di "Music For Supermakets", disco a tiratura unica il cui master verrà letteralmente bruciato al termine di una storica asta all'Hotel Drouot dove verrà acquistato da un certo signor Gerard (svegliatosi da un coma con la musica di "Souvenir Of China"), nasce infatti la fenice di Zoolook. Così come "Music For Supermarkets", composto da principio per fare da commento sonoro a una mostra di arte contemporanea, si pone implicitamente quale risposta alla filosofia ambient di Brian Eno, allo stesso modo Zoolook sfida apertamente "My Life In The Bush Of Ghosts" di Eno e Byrne, rimpolpando con una pleiade di voci registrate in giro per il mondo dall'etnologo Xavier Bellanger le scarne bozze del disco "opera d'arte" (la quinta parte si tramuterà in "Blah Blah Cafe" e la settima nella seconda parte di "Diva"), offerto in pasto ai pirati da Jarre in persona durante la sua unica messa in onda su una radio francese. Il disco segna anche la prima ampia collaborazione di Jarre con artisti provenienti dai più diversi ambiti della musica contemporanea: da Adrian Belew dei King Crimson che trapianta nelle distese di droni e pads di Jarre le potenti plettrate della sua chitarra elettrica, a Marcus Miller che scandisce le battute con il suo basso incombente, dalle batterie rutilanti di Yogi Horton ai fonemi alieni di Laurie Anderson che duettano con la parata allucinatoria dei campioni del Fairlight nel pezzo fanta-tribale di "Diva".
Se nell'opera di Eno e Byrne, come nei dischi coevi degli Art Of Noise e degli Yello, le voci umane vengono manipolate alla stregua di effetti "perturbanti" intorno ai quali edificare brani irrisolti tra canzone teatrale e divertissement dadaista, in Zoolook sono trattate come veri e propri strumenti riproducendo bassi, fiati, archi e arpeggi fino a evocare un'orchestra fonetico-multietnica nel capolavoro dal dinamismo post-wagneriano e cinematico di "Ethnicolor", una suite di circa dodici minuti suddivisa in tre movimenti che costituisce l'acme creativo del disco e di tutta la carriera di Jarre.
Con il monumentale concerto di Houston del 5 aprile 1986 celebrato per i 25 anni della Nasa e i 150 anni della città e del Texas, ha inizio una ventennale parabola di mega-live che porteranno Jarre a subordinare sempre più l'attività di certosino compositore da studio a quella di "Fitzcarraldo" di maestosi happening multimediali che si chiuderà con il concerto tra le dune di Merzouga del 2006.
A testimoniare questa nuova gerarchia di priorità nel modus operandi è la genesi stessa dell'album Rendez-Vous, che viene frettolosamente registrato in poco più di due mesi, riciclando e ampliando brani precedenti come la terza traccia di "Music for Supermarkets", uno spasmodico arpeggio in odore di cosmic music, reinserita quale terzo movimento di "Rendez Vous 5"; l'assillante accordo di due note della canzone "La Belle e la Bete" composto nel 1975 per Gerard Le Norman, rivalutato come fondamenta dell'imponente costruzione operistica di matrice "orffiana" di "Rendez Vous 2", intervallata dall'assolo minimale e struggente modulato dal freddo barrito dell'italiano Elka Synthex, strumento con il quale viene eseguito anche il tema di "Rendez Vous 3" riesumato da "La Mort du Cygne", altra canzone scritta per Le Norman; la frase melodica del famoso "Rendez Vous 4", evidente rivisitazione di quella scandita dalla voce sintetizzata di "Zoolookologie".
Incerto tra barocchismi futuristici, ibridazioni elettro-orchestrali e pseudo-jazzistiche, il disco risulta stilisticamente incompiuto e vive più delle sue parti che come lavoro unitario, fondandosi sul concept effimero del sontuoso concerto commemorativo tenuto tra i grattacieli in costruzione del Downtown di Houston in onore degli astronauti morti a bordo del Challenger pochi mesi prima (resta isolata la toccante parentesi ambient-jazz di "Ron's Piece", dedicata all'astronauta e sassofonista scomparso Ron McNair). La seconda entrata nel Guinness dei primati con un milione mezzo di spettatori sparsi ovunque intorno all'immenso drive-in sovrastato da bufere pirotecniche, gli vale un secondo allestimento per il concerto dedicato al papa in occasione della visita nella sua città natale di Lione nell'ottobre dello stesso anno.
Anche i successivi Revolutions, Waiting For Cousteau e Chronologie rispettano questa nuova agenda creativa, adeguandosi con esiti alterni al costume consolidato di affiancare lunghe suite elettro-acustiche dal respiro epico a brani in formato radio-edit oscillanti tra formule pop-rock e world-music. All'ennesima suite neo-sinfonica ripartita sul lato A in una "Ouverture" e tre parti di "Industrial Revolution" articolata sui clangori e le sonorità ferrose del Roland D-50 a evocazione dei ritmi serrati e implacabili dell'era industriale, fa da appendice "London Kid", una dolciastra ballata vintage-rock sostenuta dalla chitarra elettrica di Hank Marvin, leader dei britannici Shadow, ammirati da Jarre ai tempi dei suoi Mystere IV, mentre sul lato B, lanciato da un lungo assolo di flauto turco, "Revolutions" scalpita dietro un'alienata voce vocoderizzata in un ringhiante techno-rock che ben si adatta alle coreografie di danzatori dervisci e gigantografie pop ideate per il visionario concerto nei Docklands di Londra nelle piovose notti dell'ottobre 1988.
Indossati i panni del regista cinematografico più che del compositore, il live londinese segna il coronamento dell'ambizione a raggiungere il punto di fusione tra arti scenografiche e musicali, con la cura maniacale del design del palco galleggiante equipaggiato di tastiere e strumentazioni ispirate all'estetica del futuro decadente di "Blade Runner" e quello organico-barocco di "Dune", nonostante per Jarre l'intera produzione dell'evento avversata da intemperie e beghe burocratiche equivalga in realtà a "girare 'Apocalypse Now' in una notte".
Nel Bastille Day del 1990, "Paris La Defense - Une ville en concert", oltre a marcare la terza entrata nel guinness dei primati con i suoi due milioni e mezzo di pubblico, rappresenta anche l'ultimo riuscito concerto concepito a misura di città. L'approccio da "land-artist" votato a unire passato e futuro già applicato a Houston, Lione e Londra, si esplica nella simbolica integrazione del nuovo quartiere della Defense nel vecchio contesto urbano messo in comunicazione a distanza con l'Arch de Triomphe grazie alla collocazione intermedia del palco piramidale dal quale Jarre diffonde i cavalli di battaglia della sua discografia, tra un tripudio di fuochi d'artificio, grattacieli convertiti in organismi multicolori e pupazzi caraibici danzanti.
I tre nuovi brani del disco Waiting For Cousteau dedicati alla barca "Calypso" dell'oceanografo Jaques-Yves Cousteau coprono solo un quarto dell'intera performance, trascinando inesorabilmente il live tra il crescendo di furiosa ebbrezza percussiva degli steel drum suonati dagli Amoco Renegade di Trinidad verso la sua caleidoscopica apoteosi finale. Audace surrogato della classica suite è invece la traccia eponima dell'album, criptica quanto oceanica "audiosfera" ambient di 46 minuti in cui lugubri echi di piano ondulano sopra incommensurabili estensioni di effetti e droni ribollenti (memore di questa enigmatica perla jarriana sarà "Somnium" di Robert Rich).
"Equinoxe 2.0" potrebbe invece chiamarsi Chronologie, concept album nato del 1993 sulla scorta del libro di Stephen Hawking "Breve storia del Tempo" (anche se in realtà "Chronologie 4" e "Chronologie 5" erano stati commissionati dalla compagnia svizzera di orologi Swatch). Le otto parti di questa suite stilisticamente eterogenea dalle altalenanti mire narrative, che si snoda tra intermezzi audio-scenici di orologi scricchiolanti, aggiorna il capolavoro del 1978 alle nuove tendenze musicali degli anni 90, intersecando la grandiosa apertura dagli accenti da "space opera" della prima parte con la "dance" incalzante della seconda, dove Jarre sembra parodiare se stesso con esagitati staccati di organo epigoni di quello di "Equinoxe 4", e con quella più mesta e rigorosa della sesta, che a suo modo deriva dal motivo mesmerico di "Magnetic Fields 4".
Ad eccezione della chitarra elettrica di Patrick Rondat, l'album è governato interamente dal suono analogico di vecchie e nuove tastiere, inversione di rotta confermata quattro anni dopo con il manieristico sequel di Oxygene. Nel mezzo si situa "Europe in concert", il primo tentativo di Jarre di abbandonare la formula ormai stanca del "City in concert" imbarcandosi in un vero e proprio tour senza rinunciare al gigantismo e ai mirabilia ormai diventati il logo della sua "azienda" multimediale.
Nel 1995 Jarre si concede il suo terzo Bastille Day, stavolta ai piedi della Tour Eiffel, limitandosi a riarrangiare il vecchio repertorio insieme ai più recenti brani di Chronologie.
Ben poco dell'innocente minimalismo e delle ammalianti intuizioni sui generis che avevano contribuito alla fortuna atemporale di Oxygene sopravvivono nelle successive sette parti di Oxygene 7-13, pubblicato nel 1997 e dedicato alla memoria di Pierre Schaeffer, morto due anni prima, prosieguo revisionista della suite del 1976 che indugia tra commoventi autocitazioni e reprise palmari dei vecchi temi, come la melodia piangente dell'Aks di "Oxygene 1", incastonato nella nona parte, l'onirico formato radiofonico di "Oxygene 4", replicata in chiave trance in "Oxygene 8" (4+4) e il ritmo traballante del rythmin' computer della malinconica "Oxygene 6", sul quale si chiude la tredicesima (rasentando tuttavia il plagio con le 4 note di "Oxygene 7" tremendamente reminiscenti di "Blade Runner End Titles" di Vangelis). Michel Geiss fa qui la sua ultima comparsa nei credits, aprendo con il suo congedo dal team jarriano una lunga sequela di defezioni, a partire dalla moglie Charlotte, fino ad allora musa e fotografa ufficiale di tutti i suoi concerti, a molti dei suoi collaboratori storici, compreso Francis Dreyfus, il produttore discografico di musica jazz che aveva pensato di vendere non più di 50.000 copie di quel disco senza canzoni battezzato col nome di un gas.
La quarta entrata nel guinness dei primati con i tre milioni e mezzo di pubblico presente alla data moscovita dell'"Oxygene tour" pone il sigillo alla fine di un'era.
In questo senso il ritorno alla dimensione canora di Metamorphoses vorrebbe fungere da emblematica tabula rasa da cui principiare la seconda fase di una carriera già quasi trentennale. Ma il faraonico showcase del disco nel fantasmagorico concerto tenuto davanti alle piramidi di Giza nella notte del 1° gennaio 2000 ha quasi il valore di una profezia: una fitta nebbia manda letteralmente in fumo mesi di lavoro condotti sulle proiezioni destinate alle piramidi retrostanti il palco. E' la bruma che cala sulla vita artistica e privata di Jarre. Le molteplici partecipazioni di artisti femminili al disco, da Natacha Atlas, che gorgheggia nella lunga single track "C'est la vie", tra archi arabeggianti svolazzanti su arpeggi in salsa dance, a Laurie Anderson che ricompare in "Je me souviens", stavolta per prodursi in una notturna enumeratio di pittogrammi fonetici in uno dei pochi momenti originali del disco, al violino di Sharon Corr nella kraftwerkiana "Rendez Vous a Paris" non bastano a risollevare le sorti di un album in cui i testi difettano di una vera coesione poetica e la musica fatica a tratteggiare con la stessa intensità le atmosfere trascendenti di un tempo. Fa capitolo a sé "Miss Moon", curiosamente un brano dark-chill out privo di parole che è anche un'ultima degna prova di musica concreta con il suono dell'innaffiatore che regge come un metronomo tutta la sezione ritmica sotto i virtuosismi incorporei della voce di Dierdre Dubois.
Passeranno sette anni prima che Jarre pubblichi un nuovo album in studio, smarrendosi tra scialbi side project, come l'abortito album di "Rendez Vous In Space", concepito insieme al giapponese Tetsuya Komuro e nato e defunto nel capodanno del 2001 nel concerto di Okinawa; Geometry Of Love, del 2003, una raccolta di stentati pezzi lounge registrato al computer con soft synth per il "Vip room", club parigino di Jean Roch; "Interior Music", tedioso assemblaggio di effetti per la catena Bang&Olufsen; i vetero-avanguardismi del live di "Printemps de Bourges" del 2002, e le algide improvvisazioni electro-jazz di "Session 2000", pubblicati per risolvere il contratto con Dreyfus.
Nell'epoca degli Air, dei Daft Punk, di Moby e dei Röyksöpp, ai quali Jarre ha idealmente passato il testimone, nessuna di queste opere è più in grado di tenere alto il vessillo dell'"alfiere della musica elettronica". Dopo il lancio dell'olofonia con il suono in 5.1 di "AERO", antologia di brani ripescati tra Oxygene e Chronologie, con l'aggiunta della rielaborazione alla Robert Miles di "Je me Souviens" nella title track (la tournée prevista per la promozione si perderà per strada, riducendosi a due date tra le mura della Città Proibita di Pechino nel 2004 e il porto di Danzica nel 2005), Teo & Tea, basato nelle intenzioni sull'evoluzione di un rapporto amoroso, è l'atto conclusivo di un processo di auto-negazione dettato dall'insostenibile peso della propria leggenda. L'infantile minimalismo della datata e stucchevole eurodance del singolo non è che la conseguenza di una sindrome di "Dorian Gray" che a tratti riporta Jarre sulla strada di "Deserted Palace", tanto sgraziati ed esigui sono brani come "Gossip", "Chatterbox" e "In The Mood For You" da ricordare i primi cimenti con l'Ems e il Farfisa, priva però della ludica purezza del giovane musicista in avanscoperta (e infatti quasi tutti i suoni e i groove sono preset del nuovo Roland MC808 programmato dal dj Tim Hufken).
Destato di soprassalto dalla catastrofe commerciale, Jarre corre ai ripari rifugiandosi per la seconda volta nel passato. La versione rimasterizzata di Oxygene, rieseguita per la prima volta in maniera filologica in tutte le sue parti con le "vecchie signore" analogiche nel settembre dello stesso anno insieme ai fidati Francis Rimbert, Dominique Perrier e Claude Samard, ha l'agrodolce sapore di un'improrogabile auto-commemorazione. I concerti che seguiranno dal Teatro Marigny fino al vecchio/nuovo tour "Indoors" 2009-2010 nelle arene delle città europee dilatano all'inverosimile il tempo di una liturgia lapalissiana. Esauriti i contenuti e la spinta propulsiva dell'epoca pionieristica, la rivoluzione musicale di Jarre, come tutti i grandi sommovimenti dell'arte, si è fossilizzata negli strati della storia culturale, lasciando in superficie solo il performer, libero di continuare a trastullarsi con i propri giocattoli. Un po' come quel piccolo lionese che dal balcone di casa sognava le meraviglie del circo inseguendone i suoni perduti nell'aria.
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