Avere un blog è avere un giardino. Qualcuno se ne prenderà cura gelosamente decidendo di non aprire mai il cancello, lasciandolo ammirare solo da dietro le inferriate, altri invece lasceranno entrare tutti condividendo con loro momenti molto importanti. un blog è come un giardino. Per alcuni segreto e per altri un parco pubblico, ma pur sempre un giardino che ci piace far ammirare.
martedì 27 dicembre 2011
lunedì 5 dicembre 2011
Croce Rossa
Era presente tutto il volontariato
e la popolazione sul sagrato,
dal prete è stata benedetta
da Dio, sarà protetta.
Guidata da chi dona il tempo per la vita,
giorno e notte è garantita
grazie ai tanti volontari
preziosi e straordinari.
Si sente in lontananza
il fischio dell'autoambulanza
con luce intermittente suono acuto
va in soccorso a chi grida aiuto!
Corre in fretta va in su e in giù
al suo arrivo! c'è un cuore che non batte più,
poi... all'ultimo momento
si sente un grido, un lamento;
Presto l'ossigeno qui portate
la barella preparate
la si sente respirare
è una vita da salvare.
Parte l'ambulanza di buona lena
si ferma il traffico al suono della sirena
la persona umana è solidale
è la croce rossa che va all'ospedale!!
Il volontariato! è una crescita spontanea
di risorse e energie
soccorrono persone sulle strade e per le vie,
il loro tempo è gratuito
ed è sempre garantito.
Meravigliosa tradizione umana
alimentata dalla freschezza di luce cristiana
che per salvare la vita,
rischia la propria vita.
La famiglia è numerosa
giorno e notte è operosa
pronti per ogni emergenza
a tutti la nostra riconoscenza!!!
mercoledì 30 novembre 2011
… Roba di circa 4.000 anni fa…
Lottate per la felicità,
come lottano gli uomini per il grano.
Ricordate che l’amore
è il seme e il frutto della gioia.
Amate gli altri perchè gli altri possano amarvi,
amate voi stessi per poter amare gli altri.
Non avrete paura per la fame
perchè troverete nei granai
il grano per gli anni magri.
Non avrete paura del lavoro
perchè vi sarà congeniale.
Non avrete paura della vita
perchè vi darà la vita
e vi farà gioire con la sua fertilità.
Non avrete paura della morte
perchè in ogni orizzonte troverete una nuova saggezza.
Ricordate l’altra sponda del fiume,
dove un giorno sarete misurati secondo il peso del vostro cuore.
come lottano gli uomini per il grano.
Ricordate che l’amore
è il seme e il frutto della gioia.
Amate gli altri perchè gli altri possano amarvi,
amate voi stessi per poter amare gli altri.
Non avrete paura per la fame
perchè troverete nei granai
il grano per gli anni magri.
Non avrete paura del lavoro
perchè vi sarà congeniale.
Non avrete paura della vita
perchè vi darà la vita
e vi farà gioire con la sua fertilità.
Non avrete paura della morte
perchè in ogni orizzonte troverete una nuova saggezza.
Ricordate l’altra sponda del fiume,
dove un giorno sarete misurati secondo il peso del vostro cuore.
Amenemhat II nel 2.300 a.C.
lunedì 28 novembre 2011
mercoledì 23 novembre 2011
sabato 12 novembre 2011
il bacio
Quando Caterina de' Medici andò sposa in francia portò con se i migliori cuochi italiani e una piccola corte di esperti in varie discipline. Non a caso, perciò, dopo poco si diffuse la moda del "bacio alla fiorentina". Il bacio profondo non era una invenzione toscana ma una eredità latina; i romani lo chiamavano "suavium" ed era il bacio dedicato alle amanti.
nel tempo tale tipo di bacio è stato chiamato "french kiss" dagli inglesi che lo hanno apppreso dalla corte francese, deep kiss o anche snog.
nel tempo tale tipo di bacio è stato chiamato "french kiss" dagli inglesi che lo hanno apppreso dalla corte francese, deep kiss o anche snog.
lunedì 7 novembre 2011
siamo qua...
Noi siamo qui, siamo pronti se possiamo servire a qualcosa. Per chi ci ha messo il cuore e altrettanto cuore non ha trovato, per chi si è sbagliato e ci ha messo troppo sale, per chi non avrà pace finché non riuscirà a scoprire in quale maledetto barattolo hanno nascosto lo zucchero, per chi rischia di annegare nella piccola alluvione delle sue lacrime. Siamo qui con voi e, nonostante tutto, come voi siamo vivi. Aspettiamo la vostra voce. Aspettatevi la nostra risposta.
martedì 1 novembre 2011
il paziente inglese...
Moriamo ricchi di amanti e di tribù
di gusti che abbiamo inghiottito
di corpi che abbiamo penetrato risalendoli come fiumi,
di paure in cui ci siamo nacosti
come in questa caverna stregata senza memoria........Lo so che tornerai e mi porterai fuori di qui
nel palazzo dei venti.
Non ho mai voluto altro che camminare
in un luogo simile con te..........la lampada si è spenta e sto scrivendo nell'oscurità.
di gusti che abbiamo inghiottito
di corpi che abbiamo penetrato risalendoli come fiumi,
di paure in cui ci siamo nacosti
come in questa caverna stregata senza memoria........Lo so che tornerai e mi porterai fuori di qui
nel palazzo dei venti.
Non ho mai voluto altro che camminare
in un luogo simile con te..........la lampada si è spenta e sto scrivendo nell'oscurità.
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Muoio...muoio dentro...in questo addio...in cui il fuoco si è spento...con un freddo orribile...dentro la mia anima...
Ti amerò per sempre...mio fiore di primavera....
Ricorda queste parole...come infinito gesto di un'amore che hai sempre rifiutato... le ho messe per te...nella mia tesi...nella mia vita...
"Siamo noi i veri paesi...non le frontiere tracciate sulle mappe con i nomi di uomini potenti....una terra senza mappe...."
Addio...
Ti amerò per sempre...mio fiore di primavera....
Ricorda queste parole...come infinito gesto di un'amore che hai sempre rifiutato... le ho messe per te...nella mia tesi...nella mia vita...
"Siamo noi i veri paesi...non le frontiere tracciate sulle mappe con i nomi di uomini potenti....una terra senza mappe...."
Addio...
sabato 29 ottobre 2011
Serena notte
Notte serena a tutti
senza paure e confini
ma la consapevolezza
che nulla è distante o separato
se sai accedere con un sorriso
a questo mondo fatato
Una notte serena
a chi malgrado il buio
cerca la luce e spera
e non permette mai
che si spenga la fiamma
della nostra candela
Una serena notte
A chi cerca una carezza
Che oltre ogni confine
Impalpabile arriva
Con le stelle dipinte in cielo
E la luce nei cuori,
con sogni che prendono vita
e una lunga scia di colori…
venerdì 28 ottobre 2011
F1 | Patrick Depailler: l’uomo senza paura
1 Agosto 1980. A ricordo dell’indomito Patrick Depailler.
Le statistiche sono il dato meno utile per poter raccontare la carriera di Patrick Depailler, un ragazzo di provincia, che ha conquistato il cuore di migliaia di appassionati delle corse. Si perché guardando solo i numeri, non si rende giustizia alla sua figura. In 95 Gp disputati, solo due vittorie, una pole position e 4 giri più veloci per un totale di 141 punti iridati.
Ma non è questo Patrick Depailler, lui è il corridore per eccellenza, lo Steve McQueen della F1 moderna. Dove la sfida nel domare un pezzo di metallo, che sia esso una monoposto di F1, una moto da cross, un deltaplano o le sbarre di un letto d’ospedale è più forte di tutto. Era così Patrick, indomito, impavido e anche un po’ filosofo. Per lui la vita era sempre al massimo, e lo testimoniano tutte le gare a cui ha preso parte, sia nei circuiti che nella quotidianità. Persino quando in lotta per il titolo 1979 di F1, non rinuncia a domare il suo deltaplano schiantandosi a 50 km orari contro la roccia, facendo temere per la sua vita.
Gambe rotte, ossa fracassate, dalle moto alle auto, non impedivano a questo francese tenace dall’aspetto ossuto di esserci comunque e sempre. Il suo credo era correre e basta, con qualsiasi mezzo. Cominciò con le due ruote spinto dalla passione di chi vuole sentire l’adrenalina scorrere per tutto il corpo, arrivando perfino a prendere il via in una gara del motomondiale 1966 in sella a una Bultaco 250, sull’orrido Nurburgring d’Auvegne.
A Patrick non facevano paura i tracciati insidiosi, lui ci era nato accanto, proprio a Clermont Ferrand, una pista che percorsa ancora oggi fa venire i brividi. Depailler l’anticonformista, colui che fu l’ultimo a fumare la sua sigaretta dentro l’abitacolo di una F1, un romantico cavaliere del rischio. La sua razione quotidiana era di 20 Gitanes, “tanto il fumo era meno pericoloso di qualsiasi altra cosa facessi”, avrebbe detto se fosse ancora in vita oggi.
Il passaggio alle auto fu incoraggiato da un altro ex centauro che dopo essersi scassato per l’ennesima volta sulle due ruote, aveva pensato di salire su una vettura da corsa. Il suo nome è noto a tutti, Jean Pierre Beltoise, altro francese con il vizio della velocità. Patrick comincia a farsi le ossa nel 1967 con il programma “ L’Operation Jeunesse” che lanciò sia lui che Henry Pescarolo al volante delle Lotus Seven. Successivamente partecipò al volante Shell, indetto dalla scuola Winfield di Magny Cours dove arrivò ventunesimo dietro a François Cevert.
E’ ancora Beltoise a caldeggiare l’ingaggio di Depailler presso l’Equipe Alpine, che allora era una vera fucina di giovani campioni, dove veniva insegnato con metodo a pilotare qualsiasi tipo di vettura in ogni domenica dell’anno. Le discipline erano molteplici, F3, Endurance, Turismo, e Rally. A Dieppe, Patrick imparò il mestiere, formandosi anche come tester, cosa che poi risultò molto utile nella sua carriera.
Sempre nel 1967 a 23 anni sposa Michelle, la sua prima e unica ragazza fino ad allora. Stanno insieme da tanti anni e sono nati lo stesso giorno dello stesso anno. Sono anni di gavetta per il giovane Depailler, che con coraggio e dedizione, si lancia ogni domenica su qualsiasi macchina la scuderia Alpine gli metta a disposizione per correre e su ogni tipo di tracciato. L’occasione buona per sfondare arriva nel 1970, grazie all’approdo nella corte di Francois Guiter, mecenate da corsa e patron della Elf l’ente petrolifero transalpino, che allevava talenti come fossero cavalli di razza.
Il nuovo sodalizio garantisce a Patrick la presenza in F2 alla Pygmeé di Marius Dal Bo, insieme a lui in squadra anche altri nomi noti, quali Jabouille e lo stesso Beltoise. Il 1970 lo vede trionfare al Tour de France al volante di una Matra con Jean Todt in veste di navigatore. Il 1971 si prospetta un anno chiave per la carriera di Depailler, che avrà a disposizione una Tecno per correre in F2 e un’Alpine per la F3 francese, curata dal motorista Bernard Dudot e dal telaista André de Cortanze. Sarà la svolta, con la velocissima Alpine, Patrick a fine anno diventa campione transalpino di F3 e poco importa se le gioie che gli riserva la F2 sono poche. Corre anche la prima Le Mans della sua vita, come compagno del pilota costruttore Guy Ligier, al quale rimarrà molto legato anche in futuro.
Il 1972, lo vede ancora in F2 sempre grazie alla Elf che ormai lo tiene in considerazione mettendolo sulla March – Elf di John Coombs. Ma il giorno più importante per Depailler è il 13 maggio, quando vince il prestigioso Gp di Montecarlo F3 sul bagnato. E’ fatta, la Elf dopo questa esaltante affermazione lo lancia direttamente verso la F1, destinazione Ken Tyrrel, per il Gp di Francia.
Una gara sfortunata che lo vede vittima di una foratura e di un’inutile inseguimento nel ruolo di comparsa. Vince il solito Stewart, ma l’appuntamento con la F1 e la Tyrrell è solo rimandato.
Alla fine del 1973 arriva infatti la grande chiamata da parte del boscaiolo, che lo vuole alla guida di una delle sue vetture. La Tyrrell è orfana di Jackie Stewart, che da deciso di ritirarsi definitivamente dalle corse per via del gravissimo incidente occorso nell’ottobre dello stesso anno all’amico e compagno di colori François Cevert, morto drammaticamente durante il Gp degli Usa al Glen.
Depailler inizia la stagione con le stampelle, perché durante l’inverno è stato vittima di un incidente con la moto da trial, dove si è rotto tibia e perone. Ma Patrick non si lascia facilmente impressionare e quando sale in macchina dà il meglio di sé, nonostante abbia come compagno di squadra uno veloce e terrificante come Jody Scheckter.
La vettura con cui inizia la stagione è la stessa lasciata da Stewart iridato, ma ormai ha segnato il passo in quanto a prestazioni. Depailler non si scompone nemmeno quando il vecchio Ken dice alla stampa inglese di rimpiangere il divino Jackie. Patrick non è d’accordo risponde ai giornalisti britannici che con quella vettura nemmeno Stewart avrebbe cavato un ragno dal buco. Da lì in poi anche Tyrrell cominciò rispettarlo, perché Depailler aveva dimostrato di avere gli attributi sia come pilota che come uomo. Il 74 è anche l’anno della vittoria nell’europeo di F2, disciplina nella quale finalmente si consacra leader.
Ormai Depailler è un pilota di rango, parla molto bene l’inglese e si è ben integrato nella squadra, così quando arriva la rivoluzionaria Tyrrell P34 ideata da Derek Gardner è lui a sobbarcarsi lo sviluppo con grande impegno. Peccato che la prima vittoria della sei ruote in Svezia 76 sia ad appannaggio di Schecketer col francese ottimo secondo. Poco male, perché è uno spettacolo vederlo guidare quella vettura tra le stradine tortuose di Montecarlo, passando preciso a fil di lama dei guard rail, con uno stile da vero domatore.
Il 1978 sempre Montecarlo gli regalerà la prima vittoria in F1, con la tradizionale Tyrrell 008, Depailler impartirà a tutti i colleghi una lezione di guida indimenticabile, sbancando il circuito salotto. Da quel momento in poi tutti i suoi detrattori smisero di avere dei dubbi nei suoi confronti, perché chi vince in quel modo nel budello urbano del principato, merita rispetto e ammirazione per il proprio talento.
Nel 1979 il passaggio alla scuderia transalpina di Guy Ligier, dove trova la Js11 una vettura sublime che fu costruita cercando di imitare e migliorare le prestazioni, della Lotus 79 vincitrice con Andretti del mondiale 78. In squadra trova come compagno di avventura un altro francese Jacques Laffite. Le prime tre gare sono un dominio assoluto, con due successi per Jacques e uno di Patrick in Spagna a Jarama. Sembra che il titolo sarà un affare privato tra i piloti della Ligier e i due ferraristi, Jody Scheckter e Gilles Villenuve.
Purtroppo però il destino si mette sempre di mezzo, insieme alla voglia matta di Depailler di dominare qualsiasi cosa si muova, con e senza motore. Uno schianto in deltaplano al Puy del Dome, costringe Patrick a lottare contro la morte. Le gambe e le caviglie sono fracassate, più varie ferite alle braccia e una sopraggiunta infezione ossea che lo manderà in apnea dal sonno per molti giorni. Si teme il peggio. La sua carriera sembra all’epilogo e Guy Ligier lo licenzia sostenendo che i suoi piloti non devono svolgere attività pericolose per via del loro impegno in F1.
Ma ancora una volta è il destino ad intervenire, sotto le mentite spoglie di Carlo Chiti gran capo dell’Alfa Corse, che propone a Depailler un volante per la stagione 1980. La casa del biscione ha bisogno di un pilota esperto da mettere a fianco del giovane Bruno Giacomelli, per sviluppare la sua nuova vettura di F1, che sembra abbia del potenziale. Patrick si presenta al primo test aiutandosi con le stampelle e fatica ad entrare nell’abitacolo, ma non molla e grazie al suo impegno riesce a far crescere seppur con grande difficoltà la monoposto italiana.
Il 1° Agosto del 1980 si tiene una seduta di test sul circuito di Hockenheim, anche Depailler e l’Alfa sono presenti per provare. La vettura sembra migliorata da inizio stagione e comincia ad andar forte, anche se è ancora molto instabile e ha già avuto due incidenti allarmanti al Paul Ricard e Brands Hatch con cedimenti meccanici alle alte velocità. Quel giorno a Hockenheim , sono previste prove di vario tipo compresi giri in assetto da qualifica, dove bisogna spremere la macchina.
Alle 11.35 la vettura di Depailler esce diritta di pista alla velocissima Ostkurve dove per i momentanei lavori di manutenzione sono state rimosse le reti di contenimento e il guard rail fa tetra mostra di sé affilato come la lama di un rasoio. L’impatto è tremendo, perché in quel tratto si passa a più di 250 km/h e i soccorritori si trovano davanti ad una scena drammatica. Depailler spirerà poco dopo in ospedale per le gravi ferite alla testa e alle gambe.
Pochi giorni prima di morire, quando era in partenza per una vacanza alle Azzorre con la nuova fidanzata Valerie e l’amico Guiter della Elf, Depailler aveva disdetto la sua polizza di assicurazione sulla vita, un gesto che può sembrare azzardato, ma racchiude appieno la natura di questo uomo coraggioso e sfortunato.
Cosa ci rimane oggi di Patrick Depailler, oltre alle sue gesta ? Restano ancor di più impressi nella mente il suo coraggio, la sua voglia di provarci sempre e la sua volontà di dominare un pezzo di ferro, qualsiasi sia la sua natura. Con fede incrollabile nei propri mezzi e la fiducia intima, che la partita con la vita non dipenda mai dal fato ma dalle propria capacità di sfidare la sorte.
Le statistiche sono il dato meno utile per poter raccontare la carriera di Patrick Depailler, un ragazzo di provincia, che ha conquistato il cuore di migliaia di appassionati delle corse. Si perché guardando solo i numeri, non si rende giustizia alla sua figura. In 95 Gp disputati, solo due vittorie, una pole position e 4 giri più veloci per un totale di 141 punti iridati.
Ma non è questo Patrick Depailler, lui è il corridore per eccellenza, lo Steve McQueen della F1 moderna. Dove la sfida nel domare un pezzo di metallo, che sia esso una monoposto di F1, una moto da cross, un deltaplano o le sbarre di un letto d’ospedale è più forte di tutto. Era così Patrick, indomito, impavido e anche un po’ filosofo. Per lui la vita era sempre al massimo, e lo testimoniano tutte le gare a cui ha preso parte, sia nei circuiti che nella quotidianità. Persino quando in lotta per il titolo 1979 di F1, non rinuncia a domare il suo deltaplano schiantandosi a 50 km orari contro la roccia, facendo temere per la sua vita.
Gambe rotte, ossa fracassate, dalle moto alle auto, non impedivano a questo francese tenace dall’aspetto ossuto di esserci comunque e sempre. Il suo credo era correre e basta, con qualsiasi mezzo. Cominciò con le due ruote spinto dalla passione di chi vuole sentire l’adrenalina scorrere per tutto il corpo, arrivando perfino a prendere il via in una gara del motomondiale 1966 in sella a una Bultaco 250, sull’orrido Nurburgring d’Auvegne.
A Patrick non facevano paura i tracciati insidiosi, lui ci era nato accanto, proprio a Clermont Ferrand, una pista che percorsa ancora oggi fa venire i brividi. Depailler l’anticonformista, colui che fu l’ultimo a fumare la sua sigaretta dentro l’abitacolo di una F1, un romantico cavaliere del rischio. La sua razione quotidiana era di 20 Gitanes, “tanto il fumo era meno pericoloso di qualsiasi altra cosa facessi”, avrebbe detto se fosse ancora in vita oggi.
Il passaggio alle auto fu incoraggiato da un altro ex centauro che dopo essersi scassato per l’ennesima volta sulle due ruote, aveva pensato di salire su una vettura da corsa. Il suo nome è noto a tutti, Jean Pierre Beltoise, altro francese con il vizio della velocità. Patrick comincia a farsi le ossa nel 1967 con il programma “ L’Operation Jeunesse” che lanciò sia lui che Henry Pescarolo al volante delle Lotus Seven. Successivamente partecipò al volante Shell, indetto dalla scuola Winfield di Magny Cours dove arrivò ventunesimo dietro a François Cevert.
E’ ancora Beltoise a caldeggiare l’ingaggio di Depailler presso l’Equipe Alpine, che allora era una vera fucina di giovani campioni, dove veniva insegnato con metodo a pilotare qualsiasi tipo di vettura in ogni domenica dell’anno. Le discipline erano molteplici, F3, Endurance, Turismo, e Rally. A Dieppe, Patrick imparò il mestiere, formandosi anche come tester, cosa che poi risultò molto utile nella sua carriera.
Sempre nel 1967 a 23 anni sposa Michelle, la sua prima e unica ragazza fino ad allora. Stanno insieme da tanti anni e sono nati lo stesso giorno dello stesso anno. Sono anni di gavetta per il giovane Depailler, che con coraggio e dedizione, si lancia ogni domenica su qualsiasi macchina la scuderia Alpine gli metta a disposizione per correre e su ogni tipo di tracciato. L’occasione buona per sfondare arriva nel 1970, grazie all’approdo nella corte di Francois Guiter, mecenate da corsa e patron della Elf l’ente petrolifero transalpino, che allevava talenti come fossero cavalli di razza.
Il nuovo sodalizio garantisce a Patrick la presenza in F2 alla Pygmeé di Marius Dal Bo, insieme a lui in squadra anche altri nomi noti, quali Jabouille e lo stesso Beltoise. Il 1970 lo vede trionfare al Tour de France al volante di una Matra con Jean Todt in veste di navigatore. Il 1971 si prospetta un anno chiave per la carriera di Depailler, che avrà a disposizione una Tecno per correre in F2 e un’Alpine per la F3 francese, curata dal motorista Bernard Dudot e dal telaista André de Cortanze. Sarà la svolta, con la velocissima Alpine, Patrick a fine anno diventa campione transalpino di F3 e poco importa se le gioie che gli riserva la F2 sono poche. Corre anche la prima Le Mans della sua vita, come compagno del pilota costruttore Guy Ligier, al quale rimarrà molto legato anche in futuro.
Il 1972, lo vede ancora in F2 sempre grazie alla Elf che ormai lo tiene in considerazione mettendolo sulla March – Elf di John Coombs. Ma il giorno più importante per Depailler è il 13 maggio, quando vince il prestigioso Gp di Montecarlo F3 sul bagnato. E’ fatta, la Elf dopo questa esaltante affermazione lo lancia direttamente verso la F1, destinazione Ken Tyrrel, per il Gp di Francia.
Una gara sfortunata che lo vede vittima di una foratura e di un’inutile inseguimento nel ruolo di comparsa. Vince il solito Stewart, ma l’appuntamento con la F1 e la Tyrrell è solo rimandato.
Alla fine del 1973 arriva infatti la grande chiamata da parte del boscaiolo, che lo vuole alla guida di una delle sue vetture. La Tyrrell è orfana di Jackie Stewart, che da deciso di ritirarsi definitivamente dalle corse per via del gravissimo incidente occorso nell’ottobre dello stesso anno all’amico e compagno di colori François Cevert, morto drammaticamente durante il Gp degli Usa al Glen.
Depailler inizia la stagione con le stampelle, perché durante l’inverno è stato vittima di un incidente con la moto da trial, dove si è rotto tibia e perone. Ma Patrick non si lascia facilmente impressionare e quando sale in macchina dà il meglio di sé, nonostante abbia come compagno di squadra uno veloce e terrificante come Jody Scheckter.
La vettura con cui inizia la stagione è la stessa lasciata da Stewart iridato, ma ormai ha segnato il passo in quanto a prestazioni. Depailler non si scompone nemmeno quando il vecchio Ken dice alla stampa inglese di rimpiangere il divino Jackie. Patrick non è d’accordo risponde ai giornalisti britannici che con quella vettura nemmeno Stewart avrebbe cavato un ragno dal buco. Da lì in poi anche Tyrrell cominciò rispettarlo, perché Depailler aveva dimostrato di avere gli attributi sia come pilota che come uomo. Il 74 è anche l’anno della vittoria nell’europeo di F2, disciplina nella quale finalmente si consacra leader.
Ormai Depailler è un pilota di rango, parla molto bene l’inglese e si è ben integrato nella squadra, così quando arriva la rivoluzionaria Tyrrell P34 ideata da Derek Gardner è lui a sobbarcarsi lo sviluppo con grande impegno. Peccato che la prima vittoria della sei ruote in Svezia 76 sia ad appannaggio di Schecketer col francese ottimo secondo. Poco male, perché è uno spettacolo vederlo guidare quella vettura tra le stradine tortuose di Montecarlo, passando preciso a fil di lama dei guard rail, con uno stile da vero domatore.
Il 1978 sempre Montecarlo gli regalerà la prima vittoria in F1, con la tradizionale Tyrrell 008, Depailler impartirà a tutti i colleghi una lezione di guida indimenticabile, sbancando il circuito salotto. Da quel momento in poi tutti i suoi detrattori smisero di avere dei dubbi nei suoi confronti, perché chi vince in quel modo nel budello urbano del principato, merita rispetto e ammirazione per il proprio talento.
Nel 1979 il passaggio alla scuderia transalpina di Guy Ligier, dove trova la Js11 una vettura sublime che fu costruita cercando di imitare e migliorare le prestazioni, della Lotus 79 vincitrice con Andretti del mondiale 78. In squadra trova come compagno di avventura un altro francese Jacques Laffite. Le prime tre gare sono un dominio assoluto, con due successi per Jacques e uno di Patrick in Spagna a Jarama. Sembra che il titolo sarà un affare privato tra i piloti della Ligier e i due ferraristi, Jody Scheckter e Gilles Villenuve.
Purtroppo però il destino si mette sempre di mezzo, insieme alla voglia matta di Depailler di dominare qualsiasi cosa si muova, con e senza motore. Uno schianto in deltaplano al Puy del Dome, costringe Patrick a lottare contro la morte. Le gambe e le caviglie sono fracassate, più varie ferite alle braccia e una sopraggiunta infezione ossea che lo manderà in apnea dal sonno per molti giorni. Si teme il peggio. La sua carriera sembra all’epilogo e Guy Ligier lo licenzia sostenendo che i suoi piloti non devono svolgere attività pericolose per via del loro impegno in F1.
Ma ancora una volta è il destino ad intervenire, sotto le mentite spoglie di Carlo Chiti gran capo dell’Alfa Corse, che propone a Depailler un volante per la stagione 1980. La casa del biscione ha bisogno di un pilota esperto da mettere a fianco del giovane Bruno Giacomelli, per sviluppare la sua nuova vettura di F1, che sembra abbia del potenziale. Patrick si presenta al primo test aiutandosi con le stampelle e fatica ad entrare nell’abitacolo, ma non molla e grazie al suo impegno riesce a far crescere seppur con grande difficoltà la monoposto italiana.
Il 1° Agosto del 1980 si tiene una seduta di test sul circuito di Hockenheim, anche Depailler e l’Alfa sono presenti per provare. La vettura sembra migliorata da inizio stagione e comincia ad andar forte, anche se è ancora molto instabile e ha già avuto due incidenti allarmanti al Paul Ricard e Brands Hatch con cedimenti meccanici alle alte velocità. Quel giorno a Hockenheim , sono previste prove di vario tipo compresi giri in assetto da qualifica, dove bisogna spremere la macchina.
Alle 11.35 la vettura di Depailler esce diritta di pista alla velocissima Ostkurve dove per i momentanei lavori di manutenzione sono state rimosse le reti di contenimento e il guard rail fa tetra mostra di sé affilato come la lama di un rasoio. L’impatto è tremendo, perché in quel tratto si passa a più di 250 km/h e i soccorritori si trovano davanti ad una scena drammatica. Depailler spirerà poco dopo in ospedale per le gravi ferite alla testa e alle gambe.
Pochi giorni prima di morire, quando era in partenza per una vacanza alle Azzorre con la nuova fidanzata Valerie e l’amico Guiter della Elf, Depailler aveva disdetto la sua polizza di assicurazione sulla vita, un gesto che può sembrare azzardato, ma racchiude appieno la natura di questo uomo coraggioso e sfortunato.
Cosa ci rimane oggi di Patrick Depailler, oltre alle sue gesta ? Restano ancor di più impressi nella mente il suo coraggio, la sua voglia di provarci sempre e la sua volontà di dominare un pezzo di ferro, qualsiasi sia la sua natura. Con fede incrollabile nei propri mezzi e la fiducia intima, che la partita con la vita non dipenda mai dal fato ma dalle propria capacità di sfidare la sorte.
mercoledì 26 ottobre 2011
lunedì 24 ottobre 2011
Croce Rossa
UMANITÁ
nata dall'intento di portare soccorso senza discriminazioni ai feriti sui campi di battaglia, la Croce Rossa, in campo internazionale e nazionale, si adopera per prevenire e lenire in ogni circostanza le sofferenze degli uomini, per far rispettare la persona umana e proteggerne la vita e la salute; favorisce la comprensione reciproca, l'amicizia, la cooperazione e la pace duratura fra tutti i popoli;
non è solo il soccorso l'impegno primario della C.R.I., ma anche la prevenzione della sofferenza, per questo tutti gli operatori si preoccupano di diffondere l'educazione alla salute e la conoscenza dei principi fondamentali e del DIU.
non è solo il soccorso l'impegno primario della C.R.I., ma anche la prevenzione della sofferenza, per questo tutti gli operatori si preoccupano di diffondere l'educazione alla salute e la conoscenza dei principi fondamentali e del DIU.
IMPARZIALITÁ
opera senza distinzione di nazionalità, di razze, di religione, di condizione sociale e di appartenenza politica;
per rispettare la persona umana è necessario rispettare la sua vita, la libertà, la salute, le sue idee e i suoi costumi, eliminando quindi i concetti di superiorità e di inferiorità.
per rispettare la persona umana è necessario rispettare la sua vita, la libertà, la salute, le sue idee e i suoi costumi, eliminando quindi i concetti di superiorità e di inferiorità.
NEUTRALITÁ
si astiene dal partecipare alle ostilità di qualsiasi genere e alle controversie di ordine politico, razziale e religioso;
operando in situazione di conflitto armato, la C.R.I. pone la sua struttura a servizio della collettività senza appoggiare o favorire nessuno, in modo da avere la fiducia di tutti.
operando in situazione di conflitto armato, la C.R.I. pone la sua struttura a servizio della collettività senza appoggiare o favorire nessuno, in modo da avere la fiducia di tutti.
INDIPENDENZA
la Croce Rossa svolge in forma indipendente e autonoma le proprie attività in aderenza ai suoi principi, è ausiliaria dei poteri pubblici nelle attività umanitarie ed è sottoposta solo alle leggi dello Stato ed alle norme internazionali che la riguardano;
il soccorso volontario e disinteressato è necessario soprattutto in tempo di guerra, quando molto spesso viene coinvolto l'animo degli uomini negando la serenità di giudizio e di un'opera obiettiva.
il soccorso volontario e disinteressato è necessario soprattutto in tempo di guerra, quando molto spesso viene coinvolto l'animo degli uomini negando la serenità di giudizio e di un'opera obiettiva.
VOLONTARIETÁ
la Croce Rossa è un'istituzione di soccorso, disinteressata e basata sul principio volontaristico;
volontario è la persona che aderisce all'organizzazione di sua spontanea volontà e senza alcuna costrizione, questo però non toglie che alcune prestazioni possano essere retribuite per i dipendenti, ovvero quanti fanno una scelta di vita professionale di aderire ai principi C.R.I. e soprattutto di aiutare il prossimo sofferente.
volontario è la persona che aderisce all'organizzazione di sua spontanea volontà e senza alcuna costrizione, questo però non toglie che alcune prestazioni possano essere retribuite per i dipendenti, ovvero quanti fanno una scelta di vita professionale di aderire ai principi C.R.I. e soprattutto di aiutare il prossimo sofferente.
UNITÁ
nel territorio nazionale non vi può essere che una sola associazione di Croce Rossa aperta a tutti e con estensione della sua azione umanitaria all'intero territorio;
elemento di pace all'interno della nazione, e anche condizione per garantire la capillarità dell'intervento e la presenza in tutti i luoghi del Paese; inoltre è l'invito a tutti gli operatori C.R.I. a sentirsi componenti aventi lo stesso spirito umanitario alla base del proprio impegno.
elemento di pace all'interno della nazione, e anche condizione per garantire la capillarità dell'intervento e la presenza in tutti i luoghi del Paese; inoltre è l'invito a tutti gli operatori C.R.I. a sentirsi componenti aventi lo stesso spirito umanitario alla base del proprio impegno.
UNIVERSALITÁ
la Croce Rossa Italiana partecipa al carattere di istituzione universale della Croce Rossa, in seno alla quale tutte le società nazionali hanno uguali diritti e il dovere di aiutarsi reciprocamente;
ogni programma di sviluppo della C.R.I. si fonda su una visione globale dei bisogni, sulla cui base essa forgia strutture e servizi, richiede la partecipazione dei destinatari rafforzandone le loro capacità e contribuendo al miglioramento delle loro condizioni di vita.
ogni programma di sviluppo della C.R.I. si fonda su una visione globale dei bisogni, sulla cui base essa forgia strutture e servizi, richiede la partecipazione dei destinatari rafforzandone le loro capacità e contribuendo al miglioramento delle loro condizioni di vita.
venerdì 21 ottobre 2011
Tenni la prima per un altro giorno...
Due strade divergevano in un bosco d'autunno
e spiacente di non poterle percorrere entrambe,
essendo uno solo, mi fermai a lungo
e guardai, per quanto possibile, in fondo alla prima,
verso dove svoltava, in mezzo agli arbusti.
Poi presi l'altra, anch'essa discreta,
forse con pretese migliori, perché era erbosa e meno segnata
sebbene in realtà le tracce fossero uguali in entrambe le strade.
Ed entrambe quella mattina erano ricoperte di foglie
che nessun passo aveva annerito.
Tenni la prima per un altro giorno,
anche se, sapendo che una strada porta verso un'altra strada,
dubitai di poter mai tornare indietro.
Racconterò questo con un sospiro
Tra anni e anni:
due strade divergevano in un bosco e io,
io presi la meno battuta.
Questo ha fatto la differenza.
e spiacente di non poterle percorrere entrambe,
essendo uno solo, mi fermai a lungo
e guardai, per quanto possibile, in fondo alla prima,
verso dove svoltava, in mezzo agli arbusti.
Poi presi l'altra, anch'essa discreta,
forse con pretese migliori, perché era erbosa e meno segnata
sebbene in realtà le tracce fossero uguali in entrambe le strade.
Ed entrambe quella mattina erano ricoperte di foglie
che nessun passo aveva annerito.
Tenni la prima per un altro giorno,
anche se, sapendo che una strada porta verso un'altra strada,
dubitai di poter mai tornare indietro.
Racconterò questo con un sospiro
Tra anni e anni:
due strade divergevano in un bosco e io,
io presi la meno battuta.
Questo ha fatto la differenza.
giovedì 20 ottobre 2011
Janet Frame: la mia casa, la mia mente
Janet Frame (1924 – 2004), la più importante scrittrice neozelandese, scrisse undici romanzi, tre volumi autobiografici, quattro volumi di racconti, una raccolta di poesia, svariati racconti e poesie pubblicati singolarmente su riviste, un racconto per bambini, articoli e saggi critici.
Donna dalla acuta sensibilità, adolescente timida, solitaria e insicura, a vent’anni, dopo che la sorella Isabel era annegata, fu ricoverata in un ospedale con una diagnosi di malattia mentale.
La sua vita sarà segnata dagli anni trascorsi in manicomio per la diagnosi di schizofrenia che in seguito si rivelò sbagliata, per la quale viene sottoposta a duecento elettroshock. Si salverà dalla lobotomia solo perché il suo primo libro di racconti, “La laguna” vince un importante premio letterario.
«I miei anni tra i venti e i trenta, — dichiarò in un’intervista, — sono scappati via senza lasciare tracce, come se io non esistessi».
Il manicomio, la morte della sorella, un tentativo di suicidio, i duecento elettroshock ricordati dalla Frame ognuno come singole ‘esecuzioni’: se la vita della scrittrice, da un lato, fu segnata pesantemente da esperienze di separazione, isolamento e morte, dall’altro, la sua originalissima e complessa scrittura narrativa, la sconcertante varietà di registri espressivi, le sue ‘visioni’ e metafore poetiche danno corpo e sostanza a un mondo dell’immaginario di iridiscente e straordinaria bellezza. In vita rilasciò pochissime interviste e si rifiutò sempre di collaborare a ogni tipo di biografia scritta da altri.
Uno dei temi di fondo di tutta l’opera di Janet Frame è l’arte, la scrittura. Nei suoi scritti emerge un dualismo costante tra due mondi contrapposti: “this world” e “that world” (così definiti dalla scrittrice stessa), cioè, il mondo reale quotidiano, abitato dagli adulti, dai normali, dai conformisti, e il mondo privato dell’immaginazione, rifugio di esseri particolarmente sensibili come i bambini, i pazzi, gli anticonformisti e gli artisti. Nei suoi libri la schizofrenia o quella forma di sofferenza e introversione che era stata diagnosticata come tale, verrà narrata come l’evento che apre le porte a un processo di crescita personale e la ‘pazzia’ diventa una metafora del tentativo di fuga dalle costrizioni sociali.
La sua voce per tutta la vita si dibatterà tra il silenzio e la solitudine di un disagio psichico che non ha un linguaggio per esprimere le proprie ragioni e la parola del delirio che parla invece il linguaggio di un sapere che spessissimo non viene riconosciuto né legittimato socialmente.
Sarà la scrittura ad aiutare la Frame a salvarsi dalla acutissima sofferenza e da una martellante distruttività diretta verso il mondo e verso sé stessa. La diversità artistica e umana si concretizzerà letterariamente nella sua opera in uno stile che attraversando tutti i generi ne acquisisce le regole e le usa per ‘rifondare’ qualcosa che prima non esisteva.
L’esperienza di sofferenza, se da un lato quasi le distrugge la mente, dall’altro, la aiuta a far crollare un ordine interiore imposto da convenzioni e cultura per far posto al nuovo. Alla distruzione di linguaggi e regole che non l’aiutano a comunicare, sembrerebbe seguire un processo di ricostruzione di una ‘casa’ mentale in cui la Frame abiterà per l’intera vita, i cui mattoni e cemento sono immagini, parole, voci amalgamate per dar vita ad un ‘terzo luogo’: la sua originalissima, complessa, e poetica scrittura.
The Straight Story
Si basa su un fatto realmente accaduto e racconta la storia di Alvin Straight, un contadino dell'Iowa che nel 1994, a 73 anni di età, intraprese un lungo viaggio a bordo di un trattorino rasaerba per andare a trovare il fratello reduce da un infarto. Straight coprì in 6 settimane la distanza di 240 miglia (386 chilometri circa), viaggiando a 5 miglia all'ora (8 km/h).
Quando vedrete "Una storia vera" e vi toccherà il cuore la stupenda prestazione di Richard Farnsworth (80 anni tra poco), vi meraviglierete anche voi che il palmarès di Cannes abbia messo sugli altari un non professionista trascurando di onorare uno splendido veterano. Il quale esordì come cascatore nel 1937 e dovette aspettare 40 anni per avere finalmente il primo ruolo in cui gli affidarono delle battute. Nel presente film David Lynch (un Lynch nuovo, senz'avanguardismi né provocazioni) si ritaglia con forte sensibilità pittorica le suggestive immagini dei grandi spazi aperti per ricostruire la cronaca del viaggio compiuto nel 1994 dal veterano Alvin Straight (il titolo originale "The Straight Story" si riferisce al suo cognome, ma vuol dire anche "storia semplice"). Il tipo si recò dallo Iowa al Wisconsin per metter fine a "una situazione da Caino e Abele" con il fratello; e fin qui niente di strano, tranne che il rurale impegnò nella trasferta sei settimane avendo affrontato gli oltre 500 chilometri del percorso cavalcando un tagliaerba. Il motivo della singolare scelta? Causa il precario stato della vista, a Straight non era concesso di guidare l'automobile; il tagliaerba era l'unico mezzo di trasporto che si potesse guidare senza patente. La miniodissea diventa il pretesto d'un film "all american" con panorami sconfinati, i selvatici che attraversano la strada, il ponte sul Mississippi, gli incontri che sembrano il capitolo di un'antologia da mettere accanto alla storica "Americana" di Elio Vittorini: una ragazza incinta e fuggita di casa, alla quale Alvin racconta per consolarla le disavventure di sua figlia Rose (Sissy Spacek), un'isterica che travolge un daino e lo lascia in mezzo alla strada (Alvin pragmaticamente se lo mangia) e, a sorpresa, la confessione del protagonista a un'estranea: in guerra gli capitò di uccidere per sbaglio un commilitone e nessuno se ne accorse. La morale, per usare una frase cara a Rossellini, è che "la vita tocca tutto": e Farnsworth ne racconta il penultimo atto con accenti di verità che non sembrano provenire da un copione. Sfido chiunque a non commuoversi quando Alvin arriva alla casa del fratello Lyle (Harry Dean Stanton) e la trova vuota... Ma nella sua acquisita saggezza, Lynch salva la situazione con un finale indimenticabile.
Vale
Vale
Ciao, stammi bene..
Era per i romani una forma di saluto. Grammaticalmente è la seconda persona dell'imperativo presente del verbo
"valeo"
l cui significato primario è valere, essere forte, essere capace, essere sano, godere ottima salute e da qui il passo
come forma di saluto è breve. Lo troviamo in numerose espressioni: "Ut vales?" (=come stai?), nell'abbreviazione
"S.V.B.E.E.V." "Cura ut valeas" (=cerca di star bene), come saluto d'addio ad un defunto "aeternum vale" (Virgilio
Eneide libro XI,98), o supremum vale (Ovidio Metamorphoses liber X ,62) e non ultimo come espressione di rifiuto e dispregio "si talis est deus, valeat" (=se il dio è tale -così meschino ed inaffidabile-, lo saluto).
William Martin: l’uomo che non è mai esistito
E’ il 10 luglio 1943, ha inizio l’operazione Husky. Gli Alleati sono sbarcati in Sicilia e incontrano una scarsa resistenza sulle spiagge tra Gela, Licata e Siracusa. Le truppe che invadono il suolo italiano incontrano in prevalenza i soldati italiani della 6a armata, male armati e ancor peggio equipaggiati, supportate da un numero esiguo di forze tedesche. Nello stato maggiore tedesco e, ancora di più, in Adolf Hitler prevaleva la convinzione che le truppe americani e inglesi sarebbero sbarcate in Sardegna e in Grecia. Addirittura la Luftflotte 2, comandata dal feldmaresciallo Von Richthofen era stata spostata dalla Sicilia in Sardegna, proprio in virtù di questa errata valutazione strategica. E tutto ciò nonostante i ripetuti appelli dello stato maggiore italiano a quello tedesco per rinforzare il presidio siciliano. L’isola sarebbe stato l’obiettivo principale delle armate americane e inglesi per colpire immediatamente il "ventre molle dell’Asse", definizione ironica degli Alleati dell’Italia di Mussolini, fatta a pezzi da tre anni di guerra e prostrata dai continui bombardamenti aerei. Ma quali sono i perché di un errore così grossolano, che distrusse tutte le speranze di resistenza di italiani e tedeschi?
Per avere una risposta a questo interrogativo, bisogna fare un passo indietro e ritornare agli ultimi mesi del 1942, quando un giovane e sconosciuto ufficiale della sezione di sicurezza del Marine Intellegence Service, Ewen Montagu, ideò l’operazione Mincemeat (Carnetrita). Tale progetto consisteva nel preparare una serie di documenti falsi da far pervenire ai tedeschi su un possibile sbarco Alleato in Sardegna e in Grecia. In quelle carte si lasciava credere che tali obiettivi fossero solo coperture e che il vero oggetto dell’invasione fosse la Sicilia. Un piano contorto, con cui americani e inglesi speravano che lo stato maggiore del Terzo Reich distogliesse l’attenzione proprio dalla Sicilia: i tedeschi avrebbero dovuto essere tratti in inganno proprio dall’evidenza dell’obiettivo. Per raggiungere lo scopo, bisognava organizzare un’astuta messa in scena. infatti, i documenti sarebbero dovuti pervenire ai tedeschi in modo del tutto casuale: solo così avrebbero potuto cadere nella trappola preparata scientificamente dai servizi segreti britannici. Ma c’era anche un motivo logico che supportava l’operazione Carnetrita: Sardegna e Grecia erano due obiettivi plausibili per un eventuale sbarco, per motivi strategici. La prima non è molto distante dalle coste dell’Algeria, dove erano presenti le truppe Alleate, e poteva essere raggiunta abbastanza agevolmente dalle navi. La Sardegna poteva essere un eventuale buon trampolino di lancio per la Corsica e successivamente per la Francia. Analogamente la Grecia poteva essere invasa per creare un nuovo fronte nel Balcani: quest’ultimo avrebbe potuto essere una minaccia alle spalle dell’esercito tedesco impegnato in Unione Sovietica. Ma c’era anche un alto motivo di pericolo per la Germania: dalla penisola greca le armate americane e inglesi avrebbero potuto penetrare in Romania, paese vitale per l’approvvigionamento energetico dell’esercito del Terzo Reich. In caso di occupazione del paese balcanico, i tedeschi avrebbero perso i pozzi petroliferi, pregiudicando così il corso della guerra.
Per avere una risposta a questo interrogativo, bisogna fare un passo indietro e ritornare agli ultimi mesi del 1942, quando un giovane e sconosciuto ufficiale della sezione di sicurezza del Marine Intellegence Service, Ewen Montagu, ideò l’operazione Mincemeat (Carnetrita). Tale progetto consisteva nel preparare una serie di documenti falsi da far pervenire ai tedeschi su un possibile sbarco Alleato in Sardegna e in Grecia. In quelle carte si lasciava credere che tali obiettivi fossero solo coperture e che il vero oggetto dell’invasione fosse la Sicilia. Un piano contorto, con cui americani e inglesi speravano che lo stato maggiore del Terzo Reich distogliesse l’attenzione proprio dalla Sicilia: i tedeschi avrebbero dovuto essere tratti in inganno proprio dall’evidenza dell’obiettivo. Per raggiungere lo scopo, bisognava organizzare un’astuta messa in scena. infatti, i documenti sarebbero dovuti pervenire ai tedeschi in modo del tutto casuale: solo così avrebbero potuto cadere nella trappola preparata scientificamente dai servizi segreti britannici. Ma c’era anche un motivo logico che supportava l’operazione Carnetrita: Sardegna e Grecia erano due obiettivi plausibili per un eventuale sbarco, per motivi strategici. La prima non è molto distante dalle coste dell’Algeria, dove erano presenti le truppe Alleate, e poteva essere raggiunta abbastanza agevolmente dalle navi. La Sardegna poteva essere un eventuale buon trampolino di lancio per la Corsica e successivamente per la Francia. Analogamente la Grecia poteva essere invasa per creare un nuovo fronte nel Balcani: quest’ultimo avrebbe potuto essere una minaccia alle spalle dell’esercito tedesco impegnato in Unione Sovietica. Ma c’era anche un alto motivo di pericolo per la Germania: dalla penisola greca le armate americane e inglesi avrebbero potuto penetrare in Romania, paese vitale per l’approvvigionamento energetico dell’esercito del Terzo Reich. In caso di occupazione del paese balcanico, i tedeschi avrebbero perso i pozzi petroliferi, pregiudicando così il corso della guerra.
Montagu prese spunto da un episodio accaduto nel settembre del 1942. Un aereo inglese, diretto a Gibilterra, con alcuni ufficiali di stato maggiore era precipitato in mare non lontano dalle coste spagnole. Fortunatamente per gli Alleati, nessuno dei militari a bordo era in possesso di documenti segreti. I cadaveri furono gettati dal mare sulle coste spagnole e furono sepolti dalle autorità locali. L’incidente fu chiuso senza alcuno strascico diplomatico. Tuttavia questa vicenda ispirò la beffa di Montagu, che pensò di vestire di tutto punto un cadavere con gli abiti di un ufficiale di sua Maestà britannica e di abbandonarlo in mare, proprio in prossimità delle coste della Spagna, allora governata dal dittatore Francisco Franco, amico delle potenze dell’Asse. Il falso ufficiale avrebbe dovuto portare con sé i falsi documenti dei piani dei piani di sbarco.
Tutto doveva sembrare frutto di una sciagura aerea oppure di un naufragio: i pescatori avrebbero dovuto scoprire il cadavere sulla spiaggia e portare la valigia alla più vicina stazione di polizia.
Considerati gli ottimi rapporti tra la Spagna Franchista e il Terzo Reich, Montagu sperava che i falsi documenti, sigillati ad arte, cadessero nelle mani dello spionaggio tedesco, l’Abwher.
Per rendere il più possibile veritiero questo piano diabolico e beffardo, Montagu dovette affrontare alcuni problemi tecnici. Bisognava innanzitutto trovare un cadavere che rivelasse, nel momento in cui fosse stato sottoposto ad autopsia, i sintomi di un decesso per annegamento. L’ufficiale del Marine Intelligence Service interpellò a tale proposito un illustre primario inglese, sir Bernard Spilsbury, il quale gli spiegò che nei polmoni di un uomo morto per polmonite rimane traccia di un liquido corporeo simile all’acqua. Alla fine del mese di novembre del 1942, quando gli inglesi avevano sfondato il fronte libico ad El Alamein, fu segnalato a Montagu il decesso per polmonite di un uomo di circa trent’anni.
Per l’ideatore di Carnetrita era l’occasione d’oro per dare il via a tutta la messa in scena. Montagu non aveva perso tempo e già alcune settimane prima del ritrovamento del cadavere che potesse essere impiegato nell’operazione aveva costruito fin nei più minuziosi dettagli la falsa vita del maggiore William Martin, Secondo la sua fasulla Naval Identity Card (il documento di riconoscimento dei marinai inglesi) numero 148228 del 2 febbraio 1943, il fantomatico ufficiale era nato a Cardiff nel 1907 ed era aggregato al quartiere generale delle Combined Operations. Nulla fu lasciato al caso per far cadere nella trappola il servizio segreto nazista: anche i dettagli della vita privata furono curati nel più piccolo dettaglio. Pamela, una giovane e bella dattilografa del ministero della Guerra inglese, accettò di recitare la parte della fidanzata e scrisse un cospicuo numero di appassionate lettere d’amore, inserite poi nella valigia con i documenti. L’anello di fidanzamento fu acquistato da Martin presso un gioielliere di Bond Street a Londra con un assegno in parte scoperto. Ciò provocò un’immediata segnalazione della banca a Martin.
Dopo i particolari della falsa vita privata, Montagu ideò quelli dei finti documenti top secret da allegare al cadavere dell’uomo morto per polmonite che faceva al caso suo. La lettera più importante fu scritta da sir Archibald Nye, sostituto capo dello stato maggiore imperiale inglese, su carta intestata “War Office, Whitehall, London S.W.I.”, recante la data del 23 aprile 1943, firmata da Lord Louis Mountbatten, vice ammiraglio della Royal Navy, su carta intestata del quartiere generale delle Combined Operations, diretta all’ammiraglio sir Andrew B. Cunningham, comandante in capo della flotta del Mediterraneo. Il 17 aprile il cadavere fu prelevato dalla cella frigorifera dell’obitorio di Londra in cui era custodito. Il corpo del finto maggiore Martin fu vestito con gli abiti della Regia Marina britannica: nelle tasche furono collocati oggetti ed effetti personali. Tutto ciò doveva far sembrare veritiera la messa in scena preparata da Montagu e doveva comprovare che il maggiore Martin doveva essere stato sorpreso da un incidente mortale durante una normale missione militare. Il cadavere fu sistemato in un contenitore cilindrico di metallo riempito di ghiaccio secco, posto su un furgoncino che lo portò sino a Holy Loch in Scozia. Il contenitore fu imbarcato nel porto della località scozzese il 18 aprile sul sommergibile Seraph, al cui comando c’era il tenente N.L.A. Jewell: dai libri di bordo risultava ufficialmente il trasporto di una boa contenente apparecchi per rilevamenti meteorologici. Ciò serviva a mantenere la massima segretezza attorno all’operazione Carnetrita: solo il comandante del sottomarino insieme a due ufficiali erano al corrente degli scopi della missione e di ciò che stavano trasportando.
All’alba del 30 aprile, il Seraph aveva raggiunto le immediate vicinanze della costa spagnola in prossimità del porto di Huelva. Jewell, con l’aiuto di due suoi fidati ufficiali, tirò fuori il cadavere dal contenitore e, dopo aver controllato minuziosamente la borsa con i documenti falsi, gonfiò la giacca di sicurezza e lo lasciò scivolare in mare. Poche ore dopo il cadavere fu ritrovato da alcuni pescatori sulla spiaggia di Huelva e successivamente prelevato dai carabineros spagnoli. Il referto dell’autopsia riferì che il militare inglese era morto per «asfissia da annegamento». In questo modo, il piano di Montagu aveva incassato il primo punto a favore: nessuno si era quindi mai accorto dell’inganno. Il 3 maggio arrivò a Londra un messaggio dell’addetto navale dell’ambasciata britannica a Madrid, con cui si comunicava che il corpo di un certo maggiore Martin, trovato da alcuni pescatori sulla spiaggia di Huelva, era stato sepolto nel cimitero della cittadina spagnola. Nei giorni seguenti, lo stesso addetto navale ricevette tutti gli oggetti ritrovati addosso al maggiore Martin, compresa anche la valigetta con i documenti falsi. Gli uomini del Secret Service esaminarono attentamente le buste sigillate, che apparentemente sembravano intatte: in realtà, erano state aperte con cura dagli agenti dell’Abwher. Questi ultimi, (con la complicità delle autorità giudiziarie e di polizia spagnole) ne avevano copiati tutti i contenuti e avevano risistemato i documenti nei plichi.
Dopo quei frenetici primi giorni del maggio ’43 gli inglesi attendevano impazienti di capire se i tedeschi avevano abboccato all’amo oppure no. I falsi documenti riposti nella valigetta di Martin erano stati consegnati al comando centrale dell’Abwehr, per poi arrivare sulla scrivania personale di Hitler. Il dittatore cercava dei documenti che sostenessero la sua tesi che gli Alleati sarebbero sbarcati in Sardegna e in Grecia: la Sicilia era un obiettivo secondario. Malgrado il parere contrario dello stato maggiore italiano e del comandante delle forze tedesche in Italia, Albert Kesserling, il Fuhrer ordinò che fosse rinforzato il numero di divisioni nei Balcani e in Sardegna. A metà maggio fu infatti spostata dalla Bretagna la 1a divisione corazzata: i suoi movimenti furono seguiti da Ultra, la macchina del Secret Service che decrittava tutti i messaggi della "collega" tedesca Enigma. Il 12 maggio la Wermacht-Fuhrungsstab (servizio segreto militare) trasmise un avvertimento generale a tutti i comandi del Mediterraneo perché preparassero le difese contro possibili sbarchi degli Alleati, in particolare in Sardegna e nel Peloponneso. Non a caso, il numero delle divisioni tedesche nei Balcani fu aumentato da 8 a 18 e ben 7 furono assegnate alla Grecia. Nello stesso periodo una divisione fu inviata in Corsica e un’altra fu trasferita in Sardegna. Ma ci fu un altro gravissimo errore di valutazione da parte tedesca. Il comandante in capo della Luftflotte 2, il feldmaresciallo von Richtofen (nipote del celebre asso della prima guerra mondiale), spostò gran parte dei propri reparti aerei dalla Sicilia in Sardegna, nella convinzione che quest’ultima fosse il vero obiettivo di un eventuale sbarco nemico. La strada per l’occupazione della Sicilia era stata così aperta grossolanamente dall’alto comando tedesco, che aveva creduto ai falsi documenti del maggiore Martin. Lo stratagemma di Montagu aveva fatto centro: il 10 luglio, giorno dello sbarco sulle spiagge di Gela, Licata e Siracusa, erano presenti solo due divisioni tedesche. Gli Alleati ebbero partita vinta contro le deboli divisioni italiane comandate dal generale Guzzoni, prossimo al pensionamento. Le uniche due reazioni di rilievo furono abbozzate dall’Asse sulla spiaggia di Gela, dove fu tentato un contrattacco, e sul ponte di Primasole presso Catania.
La vera identità del maggiore Martin è tuttora rimasta segreta. Questo sconosciuto personaggio ha contribuito paradossalmente da morto alle decisione errate del comando tedesco, diventando così un eroe di guerra. Sulla tomba dell’uomo che non è mai esistito è stato posto il seguente epitaffio: «William Martin, nato il 25 marzo 1907, morto il 24 aprile 1943. Figlio adorato di John Glydwyr Martin e della defunta Antonia Martin di Cardiff, Galles. Dulce et decorum est pro patria mori. Requiescat in pace».
mercoledì 19 ottobre 2011
l'attenzione del giardiniere...
Ogni essere umano, nel corso della propria esistenza,può adottare due atteggiamenti:
costruire o piantare.
I costruttori possono passare anni impegnati nel loro compito,ma presto o tardi concludono quello che stavano facendo.Allora si fermano, e restano lì, limitati dalle loro stesse pareti.Quando la costruzione è finita, la vita perde di significato.
Quelli che piantano soffrono con le tempeste e le stagioni, raramente riposano.
Ma, al contrario di un edificio, il giardino non cessa mai di crescere.
Esso richiede l’attenzione del giardiniere, ma, nello stesso tempo,gli permette di vivere come in una grande avventura.
costruire o piantare.
I costruttori possono passare anni impegnati nel loro compito,ma presto o tardi concludono quello che stavano facendo.Allora si fermano, e restano lì, limitati dalle loro stesse pareti.Quando la costruzione è finita, la vita perde di significato.
Quelli che piantano soffrono con le tempeste e le stagioni, raramente riposano.
Ma, al contrario di un edificio, il giardino non cessa mai di crescere.
Esso richiede l’attenzione del giardiniere, ma, nello stesso tempo,gli permette di vivere come in una grande avventura.
martedì 18 ottobre 2011
Jean Béliveau
75mila km in 11 anni, riappare a casa l’essere umano che ha fatto la circonvoluzione del mondo camminando. Jean Beliveau, adesso 56enne, ha abbandonato Montreal allontanandosi dalla sua compagna e due ragazzi maggiorenni, il giorno del suo 45esimo compleanno, il 18 agosto 2000, in seguito alla rovina della sua piccola azienda d’insegne luminose. Oltre 11 anni, 75mila chilometri, 64 nazioni e 53 paia di calzature, il canadese Jean Beliveau il 16 ottobre è tornato a casa, stabilendo la camminata più lunga del mondo. La sua consorte, Luce Archambault, l’ha incoraggiato per tutta la durata della sua vicenda, realizzando perfino un sito web (wwwalk.org) per raccontare in specifico le passeggiate. In oltre 11 anni, ha oltrepassato aree desertiche e catene di monti, sfamandosi di quello che gli donava il posto e facendo proprie le tradizioni e il sapere del luogo che percorreva. Ha ingerito cibo di vario genere, insetti in Africa, e serpenti in Cina, ha infilato il classico turbante in Sudan, e nelle Filippine era protetto da alcuni militari.
lunedì 17 ottobre 2011
sabato 15 ottobre 2011
Orient Express
è il nome di un treno passeggeri a lunga distanza messo in servizio dalla Compagnie Internationale des Wagons-Lits che collegava Parigi Gare de l'Est a Costantinopoli (l'odierna Istanbul). Iniziato nel 1883, il servizio si interruppe per le guerre mondiali fra il 1914 e il 1921 e fra il 1939 e il 1945, per cessare definitivamente nel 1977 a causa della concorrenza dei trasporti aerei. L'Orient-Express rimase un servizio quotidiano Parigi-Vienna fino alla riduzione del tragitto nel 2007 e alla definitiva cancellazione il 14 dicembre 2009[1].
Il suo percorso è cambiato molte volte, e molti di questi in passato si sono fregiati del suo nome. Il nome del treno è divenuto sinonimo di viaggio di lusso.Ora l'orient express è dinuovo attivo, ed in Italia ferma solo a Milano, Venezia e Roma (rispetto alla precedente linea che comprendeva solo Milano e Venezia). Il suo passaggio è molto raro; solo 2\3 volte l'anno. Nell'anno 2011 il suo passaggio ROMA/VENEZIA è stato effettuato e registrato alla stazione di Santa Marinella alle ore 20.36 del 2 ottobre.
Il suo percorso è cambiato molte volte, e molti di questi in passato si sono fregiati del suo nome. Il nome del treno è divenuto sinonimo di viaggio di lusso.Ora l'orient express è dinuovo attivo, ed in Italia ferma solo a Milano, Venezia e Roma (rispetto alla precedente linea che comprendeva solo Milano e Venezia). Il suo passaggio è molto raro; solo 2\3 volte l'anno. Nell'anno 2011 il suo passaggio ROMA/VENEZIA è stato effettuato e registrato alla stazione di Santa Marinella alle ore 20.36 del 2 ottobre.
giovedì 13 ottobre 2011
Ricordando Wilson Greatbatch : il suo ingegno e ricordo resterà stimolato nei cuori del mondo.
Fu inventato per sbaglio, e all'inzio era grande come un armadio: ci volle diverso tempo per far diventare il primo pacemaker grande come la mano di un bambino, piccolo a sufficienza per essere impiantato nel petto di un adulto. L'inventore del pacemaker, l'ingegnere Wilson Greatbatch, è morto ieri a Buffalo, nello stato di New York, dove era nato il 6 settembre di 92 anni fa. Le cause della morte non sono state rese note, ma il genero Larry Maciariello ha spiegato che la sua salute era già da tempo «precaria».
Studioso instancabile - Ingegnere instancabile - all'attivo aveva più di 150 brevetti - Greatbatch iniziò a interessarsi all'elettronica da giovane, durante l'impiego in una radio amatoriale. Dopo essersi laureato in ingegneria iniziò a studiare la relazione tra cuore e sistema elettrico: e, tra un connessione a «onde corte» e l'altra, un giorno installò un resistore con una resistenza sbagliata, scoprendo che gli impulsi ricavati, seppure non aveano nulla a che fare con quelli che avrebbe voluto stimolare, erano identici a quelli del battito del cuore. E così nacque il primo pacemaker: per puro caso.
Il «piccolo» inconveniente - L'unico inconveniente? Tutto l'apparato elettrico era grande più o meno quanto un armadio, ed era quindo molto distante dall'essere impiantabile. Dopo mesi di lavoro per la riduzione delle dimensioni del dispositivo e diversi esperimenti sugli animali, nel 1960 il pacemaker era pronto per essere impiantato nell'uomo: il primo fu Henry Hennafeld, di 77 anni, che dopo l'intervento sopravvisse per 18 mesi. Il brevetto del pacemaker impiantabile fu registrato il 22 luglio dello stesso anno. E nel 1983 è stato nominato dalla National Society of Professional Engineers uno dei 10 contributi di ingegneria più importanti per la società degli ultimi 50 anni
martedì 11 ottobre 2011
sabato 8 ottobre 2011
orange
giovedì 6 ottobre 2011
mercoledì 5 ottobre 2011
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