Janet Frame (1924 – 2004), la più importante scrittrice neozelandese, scrisse undici romanzi, tre volumi autobiografici, quattro volumi di racconti, una raccolta di poesia, svariati racconti e poesie pubblicati singolarmente su riviste, un racconto per bambini, articoli e saggi critici.
Donna dalla acuta sensibilità, adolescente timida, solitaria e insicura, a vent’anni, dopo che la sorella Isabel era annegata, fu ricoverata in un ospedale con una diagnosi di malattia mentale.
La sua vita sarà segnata dagli anni trascorsi in manicomio per la diagnosi di schizofrenia che in seguito si rivelò sbagliata, per la quale viene sottoposta a duecento elettroshock. Si salverà dalla lobotomia solo perché il suo primo libro di racconti, “La laguna” vince un importante premio letterario.
«I miei anni tra i venti e i trenta, — dichiarò in un’intervista, — sono scappati via senza lasciare tracce, come se io non esistessi».
Il manicomio, la morte della sorella, un tentativo di suicidio, i duecento elettroshock ricordati dalla Frame ognuno come singole ‘esecuzioni’: se la vita della scrittrice, da un lato, fu segnata pesantemente da esperienze di separazione, isolamento e morte, dall’altro, la sua originalissima e complessa scrittura narrativa, la sconcertante varietà di registri espressivi, le sue ‘visioni’ e metafore poetiche danno corpo e sostanza a un mondo dell’immaginario di iridiscente e straordinaria bellezza. In vita rilasciò pochissime interviste e si rifiutò sempre di collaborare a ogni tipo di biografia scritta da altri.
Uno dei temi di fondo di tutta l’opera di Janet Frame è l’arte, la scrittura. Nei suoi scritti emerge un dualismo costante tra due mondi contrapposti: “this world” e “that world” (così definiti dalla scrittrice stessa), cioè, il mondo reale quotidiano, abitato dagli adulti, dai normali, dai conformisti, e il mondo privato dell’immaginazione, rifugio di esseri particolarmente sensibili come i bambini, i pazzi, gli anticonformisti e gli artisti. Nei suoi libri la schizofrenia o quella forma di sofferenza e introversione che era stata diagnosticata come tale, verrà narrata come l’evento che apre le porte a un processo di crescita personale e la ‘pazzia’ diventa una metafora del tentativo di fuga dalle costrizioni sociali.
La sua voce per tutta la vita si dibatterà tra il silenzio e la solitudine di un disagio psichico che non ha un linguaggio per esprimere le proprie ragioni e la parola del delirio che parla invece il linguaggio di un sapere che spessissimo non viene riconosciuto né legittimato socialmente.
Sarà la scrittura ad aiutare la Frame a salvarsi dalla acutissima sofferenza e da una martellante distruttività diretta verso il mondo e verso sé stessa. La diversità artistica e umana si concretizzerà letterariamente nella sua opera in uno stile che attraversando tutti i generi ne acquisisce le regole e le usa per ‘rifondare’ qualcosa che prima non esisteva.
L’esperienza di sofferenza, se da un lato quasi le distrugge la mente, dall’altro, la aiuta a far crollare un ordine interiore imposto da convenzioni e cultura per far posto al nuovo. Alla distruzione di linguaggi e regole che non l’aiutano a comunicare, sembrerebbe seguire un processo di ricostruzione di una ‘casa’ mentale in cui la Frame abiterà per l’intera vita, i cui mattoni e cemento sono immagini, parole, voci amalgamate per dar vita ad un ‘terzo luogo’: la sua originalissima, complessa, e poetica scrittura.
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