All'anagrafe, quella di Jean Michel Jarre sembrerebbe la tipica vita del figlio d'arte predestinato a calcare le orme paterne, se non fosse che Maurice Jarre l'avrebbe abbandonato all'età di cinque anni per seguire a Hollywood la sua carriera di compositore di colonne sonore e rifarsi una seconda famiglia. In qualche modo sarà l'assenza della figura paterna a evitare che Jarre ne assimili passivamente l'ascendente artistico, lasciandolo libero di avventurarsi in solitaria nei territori inesplorati delle avanguardie musicali così distanti dal sinfonismo classico delle più celebri partiture del genitore (su tutte quelle per "Lawrence d'Arabia" e "il Dottor Zivago"), e alimentando al contempo quella vena melanconica e mistericamente introspettiva che diventerà la chiave dominante della sua opera matura. Non a caso quella per la musica è in origine una fascinazione che nasce in funzione del rigetto della concezione classica della notazione accademica. Insofferente alle pedantesche lezioni di piano classico che gli venivano impartite in età scolare, dalle performance dei sassofonisti jazz Harchie Sheep e John Coltrane alle quali assisteva insieme alla madre nel club parigino "Le Chat-qui-Peche", Jarre apprenderà invece come la musica possa tradurre in maniera irriflessa stati emotivi e suggestioni visive senza il supporto di tecnicismi e testi cantati. Trova così un primo spazio di libertà creativa nella pittura esponendo quadri ispirati all'astrattismo di Pierre Soulages e al surrealismo di Joan Mirò e Yves Tanguy nella galleria di Lione "L'Oeil Ecoute" ("l'Occhio ascolta" una definizione che ben si attaglia al futuro stile "jarriano"), e nella musica rock che negli anni 60 si faceva veicolo di istanze anticonformiste, suonando la chitarra nei gruppi rock Mystère IV e The Dustbins. È la simultaneità di queste due pulsioni creative a stimolare la ricerca una metodologia espressiva volta a risolverne l'apparente inconciliabilità sotto il segno di una nuova forma di sinestesia ancora da inventare. Sulla scia di Eric Satie, John Cage e Terry Riley, dapprima Jarre sperimenta con nastri suonati al contrario o mescolando i suoni della chitarra con quelli di flauti, pianoforti preparati, percussioni, effetti da rumorista, per poi passare alle radio e a rudimentali dispositivi elettronici.
Nel 1969 questa ostinazione a sconfinare dalla "ridotta" della musica tradizionale gli apre infine le porte del "Groupe de Recherches Musicales (GRM)" di Parigi fondato da Pierre Schaeffer nel 1958, guru della della "musica concreta" che al cerebralismo della composizione scritta oppone l'iperrealistica potenza evocativa del suono puro. La figura di Schaeffer viene a colmare il vuoto artistico lasciato dal padre naturale, celebrando i natali della carriera di compositore di Jarre, che nello stesso anno darà alle stampe il suo primo 45 giri di musica "concreta": sulle facciate del vinile "La Cage" e "Eros Machine", con le loro micromelodie singhiozzanti e metalliche soffocate da gemiti orgasmici, aritmie percussive e ragli di ingranaggi (che anticipano nel codice sonoro le atmosfere biomeccanoidi dei quadri di H.R. Giger) si presentano come ideali manifesti di una nuova quanto estrema concezione estetica fondata sul "Nullpunkt" della musica convenzionale, risospinta in quell'oscuro utero cosmico in cui l'unica differenza tra il rumore e il suono risiede nell'intenzione con la quale viene prodotto. Il singolo vende una manciata di copie e, come avverrà anche per il successivo album Deserted Palace del 1972, circoscrive la sua importanza all'essere il proemio in sordina a quella che diverrà in seguito un'inclinazione sistematica a modellare involucri atmosferici mediante ingegnosi puzzle di effetti (precorrendo la scuola "noise music") nei quali poter incapsulare eterei ritornelli da easy listening.
Di lì a due anni, la nuova vena stilistica corroborata dall'uso esponenziale di primitivi sintetizzatori scoperti presso il Gruppo di Ricerca. come l'Ems Synthi Aks e il celeberrimo Moog modular, si esprimerà in quella che è la prima composizione per strumenti elettronici ad avere l'onore di accompagnare un balletto d'opera in sette movimenti, ispirata ai colori dell'arcobaleno e messo in scena al Palais Garnier di Parigi nel 1971.
Sebbene la versione completa di "AOR" non sia mai stata pubblicata, è ragionevole supporre che la struttura risentisse della lezione di Karlheinz Stockhausen (il cui studio di Colonia Jarre frequenta nel 1968), imperniata su sinuose dissonanze e cangiantismi timbrici e tonali di inviluppi, come si evince dal movimento "BLEU" eseguito per la prima volta 31 anni dopo durante una sessione estemporanea al festival di Bourges.
Neanche Deserted Palace, primo album solista pubblicato l'anno dopo, più che altro una sorta di "libreria" di motivetti da videogame ante litteram, sample di effetti e jingle traballanti e stucchevoli suonati su un Ems e un organo Farfisa, si sottrae dall'essere nulla più che un mosaico di esperimenti che incubano tracce di suite future come "Windswept Canyon" con il suo andante epicamente nostalgico e i suoi refoli di vento siderale profetici di Oxygene, o "Music Box concerto", ove s'intravedono i germi melodici di "Equinoxe 8" e "Magnetic Fields 2".
Nello stesso solco si collocano anche i temi composti quell'anno per la colonna sonora del film di Jean Chapot "Le Granges Brulees", dove ricorrono ancora una volta grezze ariette pseudo-romantiche caracollanti tra ronzii e friniti elettrici, e persino un estratto di "Windswept Canyon" ribattezzato "L'Helycopter" (a sancire un'attitudine al riuso che più tardi diverrà quasi una prassi per Jarre), sul quale si staglia soltanto la sconsolata marcia di "La Chanson des Granges Brulees", nella quale per la prima volta una voce femminile rintuzza la frase melodica con vocalizzi angelici.
Quasi a voler esorcizzare l'ostracismo commerciale al quale questi lavori esplorativi lo condannano, negli anni che lo separano dall'exploit internazionale di Oxygene, Jarre accetta di misurarsi con il formato della canzone scrivendo testi e musiche per Christophe, Françoise Hardy, Gerard Le Norman e Patrick Juvet. "Le Mots Bleus" (traduzione: "Le parole blu"), scritto per Christophe e apparentemente dedicato alla futura compagna di vita Charlotte Rampling, oltre a riaffermare la dimensione sinestetica entro la quale si articola la gestazione della sua imminente sintassi audiovisuale, rappresenta anche l'unico vertice creativo di questo breve detour da paroliere al quale Jarre farà ritorno (in maniera opaca e disincantata) solo nel 2000 con l'album Metamorphoses. Con la direzione dello spettacolo messo in scena per il concerto di Christophe all'Olympia gli viene però data l'occasione di collaudare la sua idea "circense" e "felliniana" delle esibizioni live che avrebbe messo in cantiere in maniera ben più magniloquente negli anni 80: in particolare il pianoforte che si libra in volo durante la performance del cantante richiama le scene oniriche concepite da Salvador Dalì nel 1945 per il film "Spellbound" di Alfred Hitchcock.
Ma nel 1976 il piccolo studio allestito tra le mura della propria cucina è ormai pronto per la creazione dell'opus magnum. È il maitre a penser dell'hardware, il tecnico del suono e musicista Michel Geiss, contattato dopo una sua conferenza sulla "sintesi analogica", a soccorrere l'ardito ventottenne che con la sua consulenza predispone il palinsesto sonoro della prima suite concepita ed eseguita per tastiere e interfacce analogiche.
Nel corso dei 41 minuti della suite, registrata su un multitraccia a otto piste, l'aeriforme paesaggio sonoro di Oxygene (che d'ora in poi racchiuderà la cifra dello stile jarriano) si disvela nella fluttuante stratificazione verticale dei suoni vaporosi del VCS3, dei sovrannaturali cori magnetici del Mellotron (strumento dal brevetto italiano) dell'A.R.P e del Ems Synthi Aks. L'avveniristica versatilità dell'Aks (una sottile tastiera che comparirà in quasi tutti i successivi album fino a Metamorphoses) gli permette di emulare lo gnaulio umanoide del Theremin nella prima e terza parte, uno dei primi gioielli della strumentistica elettronica inventato dal russo Leon Theremin nel 1927, che Jarre utilizzerà dal vivo a partire dall'"Oxygene tour" del 1997. Quello che in "Windswept Canyon" agiva come traduzione "concreta" di uno stato auditivo e visivo ottenuta per mezzo di un'ingenua riproduzione artificiale del sibilo dell'aria, a suggerire lo spasmodico refluire del vento attraverso le viscere della terra (presago della musica di commento-evocazione della "ambient" che sarebbe stata codificata l'anno dopo da Brian Eno), sin dal primo atto di Oxygene si dilata invece a una più raffinata e coerente allegoria di una condizione panteistica contenuta nel tema dell'ossigeno inteso nel suo valore di intermediario elementale tra le componenti "presocratiche" del pianeta: aria, terra, acqua, fuoco. Un panismo cosmico derivante dal Dna della sua formazione culturale di studente appassionato dello "Sturm und Drang", di quella filosofia idealistica e goethiana afferente al motivo della sensucht, del panismo nordico di Novalis e Brentano, interesse confermato tra l'altro dallo studio comparativo sul "Faust" di Berlioz e Goethe realizzato per la sua laurea in lettere.
I sei movimenti nei quali si articola l'opera, reminiscenti di quelli del balletto fantaecologico "Aor", scandiscono, sui passaggi che fungono da transitino tracks (la più efficace quella presente tra la prima e la seconda parte con l'entrata in delay degli ululati siderali su un frinire pulsante di pulviscoli gassosi) l'evoluzione di un vitalismo ingenito in una fenomenologia mistico-organica, complice tanto di una "metafisica melodica" animata da essenziali motivi musicali che progrediscono nel traslato sonoro di forme viventi allo stato procariote, espresso a partire dall'attacco della prima parte, costruita su glaciali pulsazioni in crescendo al quale l'inserimento cosmico-nostalgico dell'Aks aggiunge un timbro di soprannaturalità e di poetica trascendenza; quanto di uno spirito di allusione visiva perseguita sulla scorta delle risorse pittoriche di effetti ambientali, potenziati dal riverbero dell'Ems e dell'eco del Revox, non più relegati al rango di accessori atmosferici (come l'ansito del vento in "One Of These Days" e "Shine On You Crazy Diamond" dei Pink Floyd), bensì di autentiche propaggini impressionistiche del lirismo in nuce nel leit motiv. Esemplari in questo senso il pullulare di fischi abissali che amplificano la sovratensione accumulata dal sordo martellio del basso e il fraseggio misterico che introduce all'esplosione del "main theme" della seconda parte; gli spiracoli sincronizzati in corrispondenza del termine della battuta chiave di cinque note nella quarta, misticheggiante variazione del più disimpegnato riff di "Pop Corn" di Gershon Kingsley; il geniale accostamento che apre e chiude la sesta parte, di ascendenza coloristica, tra il pigolio echeggiante dei gabbiani e lo stesso refolo ventoso che si tramuta nella risacca del mare contrappuntando la strofa come uno strumento autosufficiente, tanto che solo al termine del brano, isolando i due effetti, è possibile riconoscerne la natura di semplici "noises", tinte che si inverano al contatto dell'una con l'altra, proprio come accade nei quadri di Hartung e Soulages.
A un ascolto più attento, l'intero telaio armonico e tonale di Oxygene si configura infatti quale sorvegliata trasposizione degli accostamenti tra bande di colore e campiture di diversa tonalità, trattati come frequenze cromatiche capaci di suscitare l'idea del "mare", dell'"aria", della "terra", del "cielo". La copertina di Michel Granger, un globo terrestre scuoiato a rivelare un teschio umano, (quadro pre-esistente al disco e acquistato su suggerimento della Rampling), farà sia da contenitore grafico che da amplificazione plastica al portato visionario dell'album, fornendo una traccia di lettura simbolica dell'opera che ne incanala l'astrazione poetica nella macabra denuncia della questione ambientale che sarebbe diventata di stringente attualità solo nei decenni successivi. Le armonie disincarnate e volatili di "Oxygene part 4" e "Oxygene part 6" suonano come epitaffi a quell'armonia perduta tra umanità ed ecosistema che tornèrà a essere un soggetto ricorrente nella musica di artisti nordici come Björk e i Sigur Rós.
Ma il successo planetario di Oxygene, che con i suoi 15 milioni di copie resta ancora oggi l'album francese più venduto al mondo, non è che il primo capitolo di un'ideale trilogia "cyber-ecologica" che si esaurirà nell'arco di cinque anni con Equinoxe e Magnetic Fields.
Ispirato, a detta di Jarre, alle leggi dei movimenti dei pianeti dell'astronomo Keplero e all'alternanza del giorno e della notte, Equinoxe ripropone in una più meditata e solida architettura ritmico-armonica di 8 parti le tessiture melodiche e le progressioni impressionistiche di Oxygene. A un lato A più nebuloso e contemplativo in cui si avvicendano equorei quadri risonanti di tetri pittogrammi, come in "Equinoxe 2" dove tornano i garriti elettrici e la risacca del mare di "Oxygene part 6", fa da contraltare la declinazione ottimistica e liricamente panica del lato B, dominato dalla radiosità cosmica dell'anthem di "Equinoxe 5", deputato a diventare come "Oxygene 4" il singolo di traino dell'album. La sinfonia si apre su una prima aria rarefatta e maestosamente melanconica intessuta su un crescendo di sincopi crepuscolari, tale da sembrare un outtake della prima parte di Oxygene (la ritroveremo ammodernata e consolidata da timpani e rullanti orchestrali quindici anni dopo nella prima parte di Chronologie), delineando l'ouverture a duplice funzionamento simbolico della struttura alchemica entro cui Jarre raffina il quoziente ermetico-magistico dell'opera precedente, plasmandone l'estensione speculare.
"Equinoxe è concepito per riflettere il passaggio delle ventiquattro ore del giorno" rivela Jarre in un'intervista dell'epoca "poiché ogni parte dell'opera musicale rappresenta diversi momenti del giorno e della notte. Mi piacerebbe che l'ascoltatore usasse il mio album nelle varie fasi della sua giornata, o quando attraversi vari stati emotivi". La seconda parte di Equinoxe esala la stessa miasmatica oscurità della transustanziazione sonora dello stato alchemico della "nigredo", "la nerezza" dello spirito, anticamente ritenuta sintomatica della sovrabbondanza di atrabile nei fluidi corporei dell'uomo, manifestazione tipica dell'umore lunatico, melancolico, visionario, tappa antecedente ai successivi gradi della purificazione della materia (Durer la rappresenta nella famosa incisione della "Melanconia 1" sotto forma di un'eclissi e Duchamp nel "Grande Vetro" nella materia bruna della cioccolata).
Jarre dimostra di aver consumato la distanza che intercorre tra la mera sintonia con dei mood universali e la sua fattiva condivisione in termini di diegesi musicale. Musica e spirito narratologico si fondono nella purezza astratta di questo flusso sonoro originato dall'assunzione dei cangiantismi umorali quali forze motrici della prassi dell'introspezione artistica, connubio raramente rintracciabile in altri compositori che si limitano ad adagiarsi tecnocraticamente sui topoi (come nel caso della traslazione elettronica di Bach eseguita da Walter Carlos in "Switched-on Bach" senza alcuna personale indagine poetica).
Dal canto suo, Michel Geiss si ripropone nelle vesti di deus ex machina e soddisfa l'insaziabile lionese soppiantando il vocoder con le modifiche apportate a un Arp2600 in grado di riprodurre suoni "robotici" e di utilizzarli in base alle armonie desiderate. Nella seconda parte Jarre lo esibisce nell'emulazione di un gracidio corale che evoca cieli brumosi e nebbie ancestrali (un riferimento ai volatili di Durer?) che potrebbe essere quello di uno stormo in volo su un paesaggio spettrale, richiamandosi al "soundscape ectoplasmico" picchiettato dalle percussioni in slap-back echo già presenti in Oxygene, e nella quarta lo si ascolta gorgheggiare da tenore cibernetico sui riflussi del main theme che dissolve in una nebbia di coriandoli equorei (la presenza di conga elettronici poco prima del reprise finale aggiunge un tocco di arcana tribalità astrale alla versione eseguita per il video del 1979) per scendere infine alla rappresentazione di una lullaby di rane in chiusura di "Band In The Rain", introduzione all'ottava parte. A rinvigorire le tramature sonore interviene il rivoluzionario "Matrisequenzer 250", prodigio di praticità ed estro creativo che Geiss ricava dal potenziamento dell'Oberehim digital sequenzer, funzionale all'incremento e al controllo in tempo reale delle linee di basso che da "Equinoxe 3" fino alla ottava parte s'impennano nell'inquietudine di un andante favolistico, imperlato da soffusi gorgoglii d'alambicco alchemico, che tracima nell'esasperata e siderea vertigine della quarta parte, quasi a prefigurare i più turbolenti e ipnotici tempi della futura "trance music".
Scemata la nebulosa letargia panica della seconda parte, siglata dall'assolo dell'AKS sull'effetto risacca di "Oxygene 6" come chiave di volta con la successiva, e la vespertina piéce di attesa della terza campita da funerei rintocchi di campane oniriche, l'itinerario crono-emotivo dalla "nigredo" alla "rubedo" s'inarca improvvisamente nella plumbea fuga di sette note supportata da una coreografia ritmica di tamburelli sintetici firmata da cimbali riverberanti, impetuosa nell'innesco dello score centrale, quasi "cariocinetica" evoluzione del fraseggio di "Oxygene 2", introdotto dai lancinanti vortici del vocoder e dell'Arp 2600 sui quali la traccia si effonde in figurazioni esoterico-decadenti, prima di cedere il passo alla seconda tranche dell'album all'interno di un pluviale tableau vivant.
Il matrisequenzer tiene il gioco polifonico fino alla settima parte, celebrando musicalmente la bioritmica dell'esistenza diurna nella sua polimorfica animazione: la fase della "citrinitas"contrassegnata dal giallo, terz'ultimo momento del processo di ascesa dalla cupezza dell'informe al fulgore liberatore della luce e dell'idealità, si estrinseca a partire dal motivo epico-ancestrale di "Equinoxe 5", pseudo-liturgico inno in onore di un futuribile ecosistema high tech, maestosità della transizione dalla materia alla forma, condizione di totale interazione spirito-natura, articolato in duplice soluzione nella sesta e settima parte con l'apporto dell'immancabile Eko ComputeRhythm a costruire un intermezzo elettro-picaresco con la sesta (attesa briosa e disincantata con la sua esigua tornata di note Korg) e il ritorno dell'Aks come soprano ad accompagnamento del refrain trascinante e impavido della settima parte, riecheggiata sul recupero del clima d'inquietudine mistica della quarta. Difatti la propaggine del tema si esaurisce in un ultimo guazzo cromatico presago dell'acquisizione e superamento dell'estremo gradino verso il compimento dell'opus alchemico. Degna di rilievo la digressione cinematografica della "Band In The Rain" (una sorta di richiamo ipertestuale ad "Amarcord") in apertura di "Equinoxe 8", che attinge direttamente alle remote memorie "felliniane" delle orchestrine circensi dell'infanzia. Il respiro ritmico-sinfonico di Equinoxe viene premiato con la vendita di sette milioni di copie e la mise en scene del primo concerto tenuto il 14 luglio del 1979 a Parigi in Place de la Concorde, dove verrà eseguito insieme alle sei parti di Oxygene davanti a un milione di persone.
Per sua fortuna le onorificenze e i riconoscimenti che suggellano il trionfo commerciale, come il Grand Prix du Disque per Oxygene, la nomina a personaggio dell'anno per la rivista "People" e l'entrata nel Guinness dei Primati per il concerto con il più alto numero di spettatori, non lo distolgono dal proseguire la sua personale ricerca condotta in quell'enclave tra musica di massa e sperimentazione in cui artisti come i Kraftwerk e i Tangerine Dream si erano sterilmente arenati. Gli anni 80 si aprono all'insegna dei Fairlight, primo sintetizzatore-campionatore digitale di cui Jarre diviene privilegiato possessore insieme a Peter Gabriel. Magnetic Fields, portato a termine all'inizio del 1981, offre la terza incarnazione del concetto jarriano di un synth-pop pittorico ed esoterico che vive all'interno della dicotomia tra catchy tunes, composizioni orecchiabili a misura di radio, e avvolgenti suite polifoniche a tesi. Curiosamente simile alla suddivisione dei brani di "Medley" dei Pink Floyd, mentre sul lato A presenta una lunga cavalcata proto-techno di 17 minuti incalzata da arpeggi mesmerici e percussioni sferraglianti, dove voci psichedeliche e rombi di aerei rielaborati al Fairlight cospirano all'evocazione di misteriose vastità spazio-temporali, il lato B procede in maniera incerta e discontinua tra il giro di note sognante quanto infantile di "Magnetic Fields 2" sostenuta dal ritmo martellante di una macchina da scrivere campionata (rendendo omaggio alla lezione di Schaeffer), i rintocchi meccanici della terza parte, la melanconica ballata della quarta parte che, attraverso lo sfrecciare di un treno sulle rotaie, trascolora nella metatestuale incoerenza di una parodistica riproduzione di una "last rumba", avviata dal rumore della puntina di un juke-box che si adagia sul vinile.
Grazie alla mancanza di contenuti verbali forieri d'idee sovversive, in Asia la musica di Jarre viene preferita a quella sferzante dei gruppi rock anglofoni e trasmessa costantemente sulle radio locali, tanto da persuadere la Cina a invitarlo a tenere la prima tournée di un artista occidentale nella repubblica post-maoista. A fare da diario per immagini e suoni di questa avventura irripetibile vissuta nella primavera 1981 tra Shangai e Pechino sarà il video documentario di Andrew Piddington e il doppio album Concerts In China, pubblicato nel 1982.
In realtà per buona parte uno "studio album" (per via delle difficoltà tecniche incontrate durante le performance live), i due vinili ripercorrono alcuni dei momenti migliori dell'ancora esiguo repertorio jarriano trascurando Oxygene e indulgendo in riarrangiamenti pseudo-acustici e fughe jammistiche come quella in coda a "Magnetic Fields 2" e a "Equinoxe 7". Gemme a sé stanti al di fuori dei rimaneggiamenti di brani tradizionali cinesi come "Fishing Junks At Sunset" (erroneamente attribuito a Jarre sui credits del disco) sono le tracce composte ex novo con l'intrepido staccato di "Orient Express", il trascinante ricamo psichedelico di "Arpeggiator" (in seguito utilizzato da David Lean a commento di una focosa scena di "9 settimane e mezzo") e "Souvenir Of China", un'elegiaca istantanea concepita al ritorno dalla tournée introdotta dalle voci di bambini cinesi e cadenzata dagli scatti della polaroid (quelli stampati sulle sleeve covers del doppio album).
In un panorama musicale ormai in tumulto per la crescente emancipazione degli strumenti elettronici che contribuiscono a plasmare nuovi stili come quello obliquo tra art-rock, electro-dark e new wave di Depeche Mode, Dead Can Dance e dei Cocteau Twins, Jarre spinge lo sguardo ancora oltre, partorendo quello che resta forse l'ultimo suo lavoro significativo. Dalle ceneri di "Music For Supermakets", disco a tiratura unica il cui master verrà letteralmente bruciato al termine di una storica asta all'Hotel Drouot dove verrà acquistato da un certo signor Gerard (svegliatosi da un coma con la musica di "Souvenir Of China"), nasce infatti la fenice di Zoolook. Così come "Music For Supermarkets", composto da principio per fare da commento sonoro a una mostra di arte contemporanea, si pone implicitamente quale risposta alla filosofia ambient di Brian Eno, allo stesso modo Zoolook sfida apertamente "My Life In The Bush Of Ghosts" di Eno e Byrne, rimpolpando con una pleiade di voci registrate in giro per il mondo dall'etnologo Xavier Bellanger le scarne bozze del disco "opera d'arte" (la quinta parte si tramuterà in "Blah Blah Cafe" e la settima nella seconda parte di "Diva"), offerto in pasto ai pirati da Jarre in persona durante la sua unica messa in onda su una radio francese. Il disco segna anche la prima ampia collaborazione di Jarre con artisti provenienti dai più diversi ambiti della musica contemporanea: da Adrian Belew dei King Crimson che trapianta nelle distese di droni e pads di Jarre le potenti plettrate della sua chitarra elettrica, a Marcus Miller che scandisce le battute con il suo basso incombente, dalle batterie rutilanti di Yogi Horton ai fonemi alieni di Laurie Anderson che duettano con la parata allucinatoria dei campioni del Fairlight nel pezzo fanta-tribale di "Diva".
Se nell'opera di Eno e Byrne, come nei dischi coevi degli Art Of Noise e degli Yello, le voci umane vengono manipolate alla stregua di effetti "perturbanti" intorno ai quali edificare brani irrisolti tra canzone teatrale e divertissement dadaista, in Zoolook sono trattate come veri e propri strumenti riproducendo bassi, fiati, archi e arpeggi fino a evocare un'orchestra fonetico-multietnica nel capolavoro dal dinamismo post-wagneriano e cinematico di "Ethnicolor", una suite di circa dodici minuti suddivisa in tre movimenti che costituisce l'acme creativo del disco e di tutta la carriera di Jarre.
Con il monumentale concerto di Houston del 5 aprile 1986 celebrato per i 25 anni della Nasa e i 150 anni della città e del Texas, ha inizio una ventennale parabola di mega-live che porteranno Jarre a subordinare sempre più l'attività di certosino compositore da studio a quella di "Fitzcarraldo" di maestosi happening multimediali che si chiuderà con il concerto tra le dune di Merzouga del 2006.
A testimoniare questa nuova gerarchia di priorità nel modus operandi è la genesi stessa dell'album Rendez-Vous, che viene frettolosamente registrato in poco più di due mesi, riciclando e ampliando brani precedenti come la terza traccia di "Music for Supermarkets", uno spasmodico arpeggio in odore di cosmic music, reinserita quale terzo movimento di "Rendez Vous 5"; l'assillante accordo di due note della canzone "La Belle e la Bete" composto nel 1975 per Gerard Le Norman, rivalutato come fondamenta dell'imponente costruzione operistica di matrice "orffiana" di "Rendez Vous 2", intervallata dall'assolo minimale e struggente modulato dal freddo barrito dell'italiano Elka Synthex, strumento con il quale viene eseguito anche il tema di "Rendez Vous 3" riesumato da "La Mort du Cygne", altra canzone scritta per Le Norman; la frase melodica del famoso "Rendez Vous 4", evidente rivisitazione di quella scandita dalla voce sintetizzata di "Zoolookologie".
Incerto tra barocchismi futuristici, ibridazioni elettro-orchestrali e pseudo-jazzistiche, il disco risulta stilisticamente incompiuto e vive più delle sue parti che come lavoro unitario, fondandosi sul concept effimero del sontuoso concerto commemorativo tenuto tra i grattacieli in costruzione del Downtown di Houston in onore degli astronauti morti a bordo del Challenger pochi mesi prima (resta isolata la toccante parentesi ambient-jazz di "Ron's Piece", dedicata all'astronauta e sassofonista scomparso Ron McNair). La seconda entrata nel Guinness dei primati con un milione mezzo di spettatori sparsi ovunque intorno all'immenso drive-in sovrastato da bufere pirotecniche, gli vale un secondo allestimento per il concerto dedicato al papa in occasione della visita nella sua città natale di Lione nell'ottobre dello stesso anno.
Anche i successivi Revolutions, Waiting For Cousteau e Chronologie rispettano questa nuova agenda creativa, adeguandosi con esiti alterni al costume consolidato di affiancare lunghe suite elettro-acustiche dal respiro epico a brani in formato radio-edit oscillanti tra formule pop-rock e world-music. All'ennesima suite neo-sinfonica ripartita sul lato A in una "Ouverture" e tre parti di "Industrial Revolution" articolata sui clangori e le sonorità ferrose del Roland D-50 a evocazione dei ritmi serrati e implacabili dell'era industriale, fa da appendice "London Kid", una dolciastra ballata vintage-rock sostenuta dalla chitarra elettrica di Hank Marvin, leader dei britannici Shadow, ammirati da Jarre ai tempi dei suoi Mystere IV, mentre sul lato B, lanciato da un lungo assolo di flauto turco, "Revolutions" scalpita dietro un'alienata voce vocoderizzata in un ringhiante techno-rock che ben si adatta alle coreografie di danzatori dervisci e gigantografie pop ideate per il visionario concerto nei Docklands di Londra nelle piovose notti dell'ottobre 1988.
Indossati i panni del regista cinematografico più che del compositore, il live londinese segna il coronamento dell'ambizione a raggiungere il punto di fusione tra arti scenografiche e musicali, con la cura maniacale del design del palco galleggiante equipaggiato di tastiere e strumentazioni ispirate all'estetica del futuro decadente di "Blade Runner" e quello organico-barocco di "Dune", nonostante per Jarre l'intera produzione dell'evento avversata da intemperie e beghe burocratiche equivalga in realtà a "girare 'Apocalypse Now' in una notte".
Nel Bastille Day del 1990, "Paris La Defense - Une ville en concert", oltre a marcare la terza entrata nel guinness dei primati con i suoi due milioni e mezzo di pubblico, rappresenta anche l'ultimo riuscito concerto concepito a misura di città. L'approccio da "land-artist" votato a unire passato e futuro già applicato a Houston, Lione e Londra, si esplica nella simbolica integrazione del nuovo quartiere della Defense nel vecchio contesto urbano messo in comunicazione a distanza con l'Arch de Triomphe grazie alla collocazione intermedia del palco piramidale dal quale Jarre diffonde i cavalli di battaglia della sua discografia, tra un tripudio di fuochi d'artificio, grattacieli convertiti in organismi multicolori e pupazzi caraibici danzanti.
I tre nuovi brani del disco Waiting For Cousteau dedicati alla barca "Calypso" dell'oceanografo Jaques-Yves Cousteau coprono solo un quarto dell'intera performance, trascinando inesorabilmente il live tra il crescendo di furiosa ebbrezza percussiva degli steel drum suonati dagli Amoco Renegade di Trinidad verso la sua caleidoscopica apoteosi finale. Audace surrogato della classica suite è invece la traccia eponima dell'album, criptica quanto oceanica "audiosfera" ambient di 46 minuti in cui lugubri echi di piano ondulano sopra incommensurabili estensioni di effetti e droni ribollenti (memore di questa enigmatica perla jarriana sarà "Somnium" di Robert Rich).
"Equinoxe 2.0" potrebbe invece chiamarsi Chronologie, concept album nato del 1993 sulla scorta del libro di Stephen Hawking "Breve storia del Tempo" (anche se in realtà "Chronologie 4" e "Chronologie 5" erano stati commissionati dalla compagnia svizzera di orologi Swatch). Le otto parti di questa suite stilisticamente eterogenea dalle altalenanti mire narrative, che si snoda tra intermezzi audio-scenici di orologi scricchiolanti, aggiorna il capolavoro del 1978 alle nuove tendenze musicali degli anni 90, intersecando la grandiosa apertura dagli accenti da "space opera" della prima parte con la "dance" incalzante della seconda, dove Jarre sembra parodiare se stesso con esagitati staccati di organo epigoni di quello di "Equinoxe 4", e con quella più mesta e rigorosa della sesta, che a suo modo deriva dal motivo mesmerico di "Magnetic Fields 4".
Ad eccezione della chitarra elettrica di Patrick Rondat, l'album è governato interamente dal suono analogico di vecchie e nuove tastiere, inversione di rotta confermata quattro anni dopo con il manieristico sequel di Oxygene. Nel mezzo si situa "Europe in concert", il primo tentativo di Jarre di abbandonare la formula ormai stanca del "City in concert" imbarcandosi in un vero e proprio tour senza rinunciare al gigantismo e ai mirabilia ormai diventati il logo della sua "azienda" multimediale.
Nel 1995 Jarre si concede il suo terzo Bastille Day, stavolta ai piedi della Tour Eiffel, limitandosi a riarrangiare il vecchio repertorio insieme ai più recenti brani di Chronologie.
Ben poco dell'innocente minimalismo e delle ammalianti intuizioni sui generis che avevano contribuito alla fortuna atemporale di Oxygene sopravvivono nelle successive sette parti di Oxygene 7-13, pubblicato nel 1997 e dedicato alla memoria di Pierre Schaeffer, morto due anni prima, prosieguo revisionista della suite del 1976 che indugia tra commoventi autocitazioni e reprise palmari dei vecchi temi, come la melodia piangente dell'Aks di "Oxygene 1", incastonato nella nona parte, l'onirico formato radiofonico di "Oxygene 4", replicata in chiave trance in "Oxygene 8" (4+4) e il ritmo traballante del rythmin' computer della malinconica "Oxygene 6", sul quale si chiude la tredicesima (rasentando tuttavia il plagio con le 4 note di "Oxygene 7" tremendamente reminiscenti di "Blade Runner End Titles" di Vangelis). Michel Geiss fa qui la sua ultima comparsa nei credits, aprendo con il suo congedo dal team jarriano una lunga sequela di defezioni, a partire dalla moglie Charlotte, fino ad allora musa e fotografa ufficiale di tutti i suoi concerti, a molti dei suoi collaboratori storici, compreso Francis Dreyfus, il produttore discografico di musica jazz che aveva pensato di vendere non più di 50.000 copie di quel disco senza canzoni battezzato col nome di un gas.
La quarta entrata nel guinness dei primati con i tre milioni e mezzo di pubblico presente alla data moscovita dell'"Oxygene tour" pone il sigillo alla fine di un'era.
In questo senso il ritorno alla dimensione canora di Metamorphoses vorrebbe fungere da emblematica tabula rasa da cui principiare la seconda fase di una carriera già quasi trentennale. Ma il faraonico showcase del disco nel fantasmagorico concerto tenuto davanti alle piramidi di Giza nella notte del 1° gennaio 2000 ha quasi il valore di una profezia: una fitta nebbia manda letteralmente in fumo mesi di lavoro condotti sulle proiezioni destinate alle piramidi retrostanti il palco. E' la bruma che cala sulla vita artistica e privata di Jarre. Le molteplici partecipazioni di artisti femminili al disco, da Natacha Atlas, che gorgheggia nella lunga single track "C'est la vie", tra archi arabeggianti svolazzanti su arpeggi in salsa dance, a Laurie Anderson che ricompare in "Je me souviens", stavolta per prodursi in una notturna enumeratio di pittogrammi fonetici in uno dei pochi momenti originali del disco, al violino di Sharon Corr nella kraftwerkiana "Rendez Vous a Paris" non bastano a risollevare le sorti di un album in cui i testi difettano di una vera coesione poetica e la musica fatica a tratteggiare con la stessa intensità le atmosfere trascendenti di un tempo. Fa capitolo a sé "Miss Moon", curiosamente un brano dark-chill out privo di parole che è anche un'ultima degna prova di musica concreta con il suono dell'innaffiatore che regge come un metronomo tutta la sezione ritmica sotto i virtuosismi incorporei della voce di Dierdre Dubois.
Passeranno sette anni prima che Jarre pubblichi un nuovo album in studio, smarrendosi tra scialbi side project, come l'abortito album di "Rendez Vous In Space", concepito insieme al giapponese Tetsuya Komuro e nato e defunto nel capodanno del 2001 nel concerto di Okinawa; Geometry Of Love, del 2003, una raccolta di stentati pezzi lounge registrato al computer con soft synth per il "Vip room", club parigino di Jean Roch; "Interior Music", tedioso assemblaggio di effetti per la catena Bang&Olufsen; i vetero-avanguardismi del live di "Printemps de Bourges" del 2002, e le algide improvvisazioni electro-jazz di "Session 2000", pubblicati per risolvere il contratto con Dreyfus.
Nell'epoca degli Air, dei Daft Punk, di Moby e dei Röyksöpp, ai quali Jarre ha idealmente passato il testimone, nessuna di queste opere è più in grado di tenere alto il vessillo dell'"alfiere della musica elettronica". Dopo il lancio dell'olofonia con il suono in 5.1 di "AERO", antologia di brani ripescati tra Oxygene e Chronologie, con l'aggiunta della rielaborazione alla Robert Miles di "Je me Souviens" nella title track (la tournée prevista per la promozione si perderà per strada, riducendosi a due date tra le mura della Città Proibita di Pechino nel 2004 e il porto di Danzica nel 2005), Teo & Tea, basato nelle intenzioni sull'evoluzione di un rapporto amoroso, è l'atto conclusivo di un processo di auto-negazione dettato dall'insostenibile peso della propria leggenda. L'infantile minimalismo della datata e stucchevole eurodance del singolo non è che la conseguenza di una sindrome di "Dorian Gray" che a tratti riporta Jarre sulla strada di "Deserted Palace", tanto sgraziati ed esigui sono brani come "Gossip", "Chatterbox" e "In The Mood For You" da ricordare i primi cimenti con l'Ems e il Farfisa, priva però della ludica purezza del giovane musicista in avanscoperta (e infatti quasi tutti i suoni e i groove sono preset del nuovo Roland MC808 programmato dal dj Tim Hufken).
Destato di soprassalto dalla catastrofe commerciale, Jarre corre ai ripari rifugiandosi per la seconda volta nel passato. La versione rimasterizzata di Oxygene, rieseguita per la prima volta in maniera filologica in tutte le sue parti con le "vecchie signore" analogiche nel settembre dello stesso anno insieme ai fidati Francis Rimbert, Dominique Perrier e Claude Samard, ha l'agrodolce sapore di un'improrogabile auto-commemorazione. I concerti che seguiranno dal Teatro Marigny fino al vecchio/nuovo tour "Indoors" 2009-2010 nelle arene delle città europee dilatano all'inverosimile il tempo di una liturgia lapalissiana. Esauriti i contenuti e la spinta propulsiva dell'epoca pionieristica, la rivoluzione musicale di Jarre, come tutti i grandi sommovimenti dell'arte, si è fossilizzata negli strati della storia culturale, lasciando in superficie solo il performer, libero di continuare a trastullarsi con i propri giocattoli. Un po' come quel piccolo lionese che dal balcone di casa sognava le meraviglie del circo inseguendone i suoni perduti nell'aria.
Nel 1969 questa ostinazione a sconfinare dalla "ridotta" della musica tradizionale gli apre infine le porte del "Groupe de Recherches Musicales (GRM)" di Parigi fondato da Pierre Schaeffer nel 1958, guru della della "musica concreta" che al cerebralismo della composizione scritta oppone l'iperrealistica potenza evocativa del suono puro. La figura di Schaeffer viene a colmare il vuoto artistico lasciato dal padre naturale, celebrando i natali della carriera di compositore di Jarre, che nello stesso anno darà alle stampe il suo primo 45 giri di musica "concreta": sulle facciate del vinile "La Cage" e "Eros Machine", con le loro micromelodie singhiozzanti e metalliche soffocate da gemiti orgasmici, aritmie percussive e ragli di ingranaggi (che anticipano nel codice sonoro le atmosfere biomeccanoidi dei quadri di H.R. Giger) si presentano come ideali manifesti di una nuova quanto estrema concezione estetica fondata sul "Nullpunkt" della musica convenzionale, risospinta in quell'oscuro utero cosmico in cui l'unica differenza tra il rumore e il suono risiede nell'intenzione con la quale viene prodotto. Il singolo vende una manciata di copie e, come avverrà anche per il successivo album Deserted Palace del 1972, circoscrive la sua importanza all'essere il proemio in sordina a quella che diverrà in seguito un'inclinazione sistematica a modellare involucri atmosferici mediante ingegnosi puzzle di effetti (precorrendo la scuola "noise music") nei quali poter incapsulare eterei ritornelli da easy listening.
Di lì a due anni, la nuova vena stilistica corroborata dall'uso esponenziale di primitivi sintetizzatori scoperti presso il Gruppo di Ricerca. come l'Ems Synthi Aks e il celeberrimo Moog modular, si esprimerà in quella che è la prima composizione per strumenti elettronici ad avere l'onore di accompagnare un balletto d'opera in sette movimenti, ispirata ai colori dell'arcobaleno e messo in scena al Palais Garnier di Parigi nel 1971.
Sebbene la versione completa di "AOR" non sia mai stata pubblicata, è ragionevole supporre che la struttura risentisse della lezione di Karlheinz Stockhausen (il cui studio di Colonia Jarre frequenta nel 1968), imperniata su sinuose dissonanze e cangiantismi timbrici e tonali di inviluppi, come si evince dal movimento "BLEU" eseguito per la prima volta 31 anni dopo durante una sessione estemporanea al festival di Bourges.
Neanche Deserted Palace, primo album solista pubblicato l'anno dopo, più che altro una sorta di "libreria" di motivetti da videogame ante litteram, sample di effetti e jingle traballanti e stucchevoli suonati su un Ems e un organo Farfisa, si sottrae dall'essere nulla più che un mosaico di esperimenti che incubano tracce di suite future come "Windswept Canyon" con il suo andante epicamente nostalgico e i suoi refoli di vento siderale profetici di Oxygene, o "Music Box concerto", ove s'intravedono i germi melodici di "Equinoxe 8" e "Magnetic Fields 2".
Nello stesso solco si collocano anche i temi composti quell'anno per la colonna sonora del film di Jean Chapot "Le Granges Brulees", dove ricorrono ancora una volta grezze ariette pseudo-romantiche caracollanti tra ronzii e friniti elettrici, e persino un estratto di "Windswept Canyon" ribattezzato "L'Helycopter" (a sancire un'attitudine al riuso che più tardi diverrà quasi una prassi per Jarre), sul quale si staglia soltanto la sconsolata marcia di "La Chanson des Granges Brulees", nella quale per la prima volta una voce femminile rintuzza la frase melodica con vocalizzi angelici.
Quasi a voler esorcizzare l'ostracismo commerciale al quale questi lavori esplorativi lo condannano, negli anni che lo separano dall'exploit internazionale di Oxygene, Jarre accetta di misurarsi con il formato della canzone scrivendo testi e musiche per Christophe, Françoise Hardy, Gerard Le Norman e Patrick Juvet. "Le Mots Bleus" (traduzione: "Le parole blu"), scritto per Christophe e apparentemente dedicato alla futura compagna di vita Charlotte Rampling, oltre a riaffermare la dimensione sinestetica entro la quale si articola la gestazione della sua imminente sintassi audiovisuale, rappresenta anche l'unico vertice creativo di questo breve detour da paroliere al quale Jarre farà ritorno (in maniera opaca e disincantata) solo nel 2000 con l'album Metamorphoses. Con la direzione dello spettacolo messo in scena per il concerto di Christophe all'Olympia gli viene però data l'occasione di collaudare la sua idea "circense" e "felliniana" delle esibizioni live che avrebbe messo in cantiere in maniera ben più magniloquente negli anni 80: in particolare il pianoforte che si libra in volo durante la performance del cantante richiama le scene oniriche concepite da Salvador Dalì nel 1945 per il film "Spellbound" di Alfred Hitchcock.
Ma nel 1976 il piccolo studio allestito tra le mura della propria cucina è ormai pronto per la creazione dell'opus magnum. È il maitre a penser dell'hardware, il tecnico del suono e musicista Michel Geiss, contattato dopo una sua conferenza sulla "sintesi analogica", a soccorrere l'ardito ventottenne che con la sua consulenza predispone il palinsesto sonoro della prima suite concepita ed eseguita per tastiere e interfacce analogiche.
Nel corso dei 41 minuti della suite, registrata su un multitraccia a otto piste, l'aeriforme paesaggio sonoro di Oxygene (che d'ora in poi racchiuderà la cifra dello stile jarriano) si disvela nella fluttuante stratificazione verticale dei suoni vaporosi del VCS3, dei sovrannaturali cori magnetici del Mellotron (strumento dal brevetto italiano) dell'A.R.P e del Ems Synthi Aks. L'avveniristica versatilità dell'Aks (una sottile tastiera che comparirà in quasi tutti i successivi album fino a Metamorphoses) gli permette di emulare lo gnaulio umanoide del Theremin nella prima e terza parte, uno dei primi gioielli della strumentistica elettronica inventato dal russo Leon Theremin nel 1927, che Jarre utilizzerà dal vivo a partire dall'"Oxygene tour" del 1997. Quello che in "Windswept Canyon" agiva come traduzione "concreta" di uno stato auditivo e visivo ottenuta per mezzo di un'ingenua riproduzione artificiale del sibilo dell'aria, a suggerire lo spasmodico refluire del vento attraverso le viscere della terra (presago della musica di commento-evocazione della "ambient" che sarebbe stata codificata l'anno dopo da Brian Eno), sin dal primo atto di Oxygene si dilata invece a una più raffinata e coerente allegoria di una condizione panteistica contenuta nel tema dell'ossigeno inteso nel suo valore di intermediario elementale tra le componenti "presocratiche" del pianeta: aria, terra, acqua, fuoco. Un panismo cosmico derivante dal Dna della sua formazione culturale di studente appassionato dello "Sturm und Drang", di quella filosofia idealistica e goethiana afferente al motivo della sensucht, del panismo nordico di Novalis e Brentano, interesse confermato tra l'altro dallo studio comparativo sul "Faust" di Berlioz e Goethe realizzato per la sua laurea in lettere.
I sei movimenti nei quali si articola l'opera, reminiscenti di quelli del balletto fantaecologico "Aor", scandiscono, sui passaggi che fungono da transitino tracks (la più efficace quella presente tra la prima e la seconda parte con l'entrata in delay degli ululati siderali su un frinire pulsante di pulviscoli gassosi) l'evoluzione di un vitalismo ingenito in una fenomenologia mistico-organica, complice tanto di una "metafisica melodica" animata da essenziali motivi musicali che progrediscono nel traslato sonoro di forme viventi allo stato procariote, espresso a partire dall'attacco della prima parte, costruita su glaciali pulsazioni in crescendo al quale l'inserimento cosmico-nostalgico dell'Aks aggiunge un timbro di soprannaturalità e di poetica trascendenza; quanto di uno spirito di allusione visiva perseguita sulla scorta delle risorse pittoriche di effetti ambientali, potenziati dal riverbero dell'Ems e dell'eco del Revox, non più relegati al rango di accessori atmosferici (come l'ansito del vento in "One Of These Days" e "Shine On You Crazy Diamond" dei Pink Floyd), bensì di autentiche propaggini impressionistiche del lirismo in nuce nel leit motiv. Esemplari in questo senso il pullulare di fischi abissali che amplificano la sovratensione accumulata dal sordo martellio del basso e il fraseggio misterico che introduce all'esplosione del "main theme" della seconda parte; gli spiracoli sincronizzati in corrispondenza del termine della battuta chiave di cinque note nella quarta, misticheggiante variazione del più disimpegnato riff di "Pop Corn" di Gershon Kingsley; il geniale accostamento che apre e chiude la sesta parte, di ascendenza coloristica, tra il pigolio echeggiante dei gabbiani e lo stesso refolo ventoso che si tramuta nella risacca del mare contrappuntando la strofa come uno strumento autosufficiente, tanto che solo al termine del brano, isolando i due effetti, è possibile riconoscerne la natura di semplici "noises", tinte che si inverano al contatto dell'una con l'altra, proprio come accade nei quadri di Hartung e Soulages.
A un ascolto più attento, l'intero telaio armonico e tonale di Oxygene si configura infatti quale sorvegliata trasposizione degli accostamenti tra bande di colore e campiture di diversa tonalità, trattati come frequenze cromatiche capaci di suscitare l'idea del "mare", dell'"aria", della "terra", del "cielo". La copertina di Michel Granger, un globo terrestre scuoiato a rivelare un teschio umano, (quadro pre-esistente al disco e acquistato su suggerimento della Rampling), farà sia da contenitore grafico che da amplificazione plastica al portato visionario dell'album, fornendo una traccia di lettura simbolica dell'opera che ne incanala l'astrazione poetica nella macabra denuncia della questione ambientale che sarebbe diventata di stringente attualità solo nei decenni successivi. Le armonie disincarnate e volatili di "Oxygene part 4" e "Oxygene part 6" suonano come epitaffi a quell'armonia perduta tra umanità ed ecosistema che tornèrà a essere un soggetto ricorrente nella musica di artisti nordici come Björk e i Sigur Rós.
Ma il successo planetario di Oxygene, che con i suoi 15 milioni di copie resta ancora oggi l'album francese più venduto al mondo, non è che il primo capitolo di un'ideale trilogia "cyber-ecologica" che si esaurirà nell'arco di cinque anni con Equinoxe e Magnetic Fields.
Ispirato, a detta di Jarre, alle leggi dei movimenti dei pianeti dell'astronomo Keplero e all'alternanza del giorno e della notte, Equinoxe ripropone in una più meditata e solida architettura ritmico-armonica di 8 parti le tessiture melodiche e le progressioni impressionistiche di Oxygene. A un lato A più nebuloso e contemplativo in cui si avvicendano equorei quadri risonanti di tetri pittogrammi, come in "Equinoxe 2" dove tornano i garriti elettrici e la risacca del mare di "Oxygene part 6", fa da contraltare la declinazione ottimistica e liricamente panica del lato B, dominato dalla radiosità cosmica dell'anthem di "Equinoxe 5", deputato a diventare come "Oxygene 4" il singolo di traino dell'album. La sinfonia si apre su una prima aria rarefatta e maestosamente melanconica intessuta su un crescendo di sincopi crepuscolari, tale da sembrare un outtake della prima parte di Oxygene (la ritroveremo ammodernata e consolidata da timpani e rullanti orchestrali quindici anni dopo nella prima parte di Chronologie), delineando l'ouverture a duplice funzionamento simbolico della struttura alchemica entro cui Jarre raffina il quoziente ermetico-magistico dell'opera precedente, plasmandone l'estensione speculare.
"Equinoxe è concepito per riflettere il passaggio delle ventiquattro ore del giorno" rivela Jarre in un'intervista dell'epoca "poiché ogni parte dell'opera musicale rappresenta diversi momenti del giorno e della notte. Mi piacerebbe che l'ascoltatore usasse il mio album nelle varie fasi della sua giornata, o quando attraversi vari stati emotivi". La seconda parte di Equinoxe esala la stessa miasmatica oscurità della transustanziazione sonora dello stato alchemico della "nigredo", "la nerezza" dello spirito, anticamente ritenuta sintomatica della sovrabbondanza di atrabile nei fluidi corporei dell'uomo, manifestazione tipica dell'umore lunatico, melancolico, visionario, tappa antecedente ai successivi gradi della purificazione della materia (Durer la rappresenta nella famosa incisione della "Melanconia 1" sotto forma di un'eclissi e Duchamp nel "Grande Vetro" nella materia bruna della cioccolata).
Jarre dimostra di aver consumato la distanza che intercorre tra la mera sintonia con dei mood universali e la sua fattiva condivisione in termini di diegesi musicale. Musica e spirito narratologico si fondono nella purezza astratta di questo flusso sonoro originato dall'assunzione dei cangiantismi umorali quali forze motrici della prassi dell'introspezione artistica, connubio raramente rintracciabile in altri compositori che si limitano ad adagiarsi tecnocraticamente sui topoi (come nel caso della traslazione elettronica di Bach eseguita da Walter Carlos in "Switched-on Bach" senza alcuna personale indagine poetica).
Dal canto suo, Michel Geiss si ripropone nelle vesti di deus ex machina e soddisfa l'insaziabile lionese soppiantando il vocoder con le modifiche apportate a un Arp2600 in grado di riprodurre suoni "robotici" e di utilizzarli in base alle armonie desiderate. Nella seconda parte Jarre lo esibisce nell'emulazione di un gracidio corale che evoca cieli brumosi e nebbie ancestrali (un riferimento ai volatili di Durer?) che potrebbe essere quello di uno stormo in volo su un paesaggio spettrale, richiamandosi al "soundscape ectoplasmico" picchiettato dalle percussioni in slap-back echo già presenti in Oxygene, e nella quarta lo si ascolta gorgheggiare da tenore cibernetico sui riflussi del main theme che dissolve in una nebbia di coriandoli equorei (la presenza di conga elettronici poco prima del reprise finale aggiunge un tocco di arcana tribalità astrale alla versione eseguita per il video del 1979) per scendere infine alla rappresentazione di una lullaby di rane in chiusura di "Band In The Rain", introduzione all'ottava parte. A rinvigorire le tramature sonore interviene il rivoluzionario "Matrisequenzer 250", prodigio di praticità ed estro creativo che Geiss ricava dal potenziamento dell'Oberehim digital sequenzer, funzionale all'incremento e al controllo in tempo reale delle linee di basso che da "Equinoxe 3" fino alla ottava parte s'impennano nell'inquietudine di un andante favolistico, imperlato da soffusi gorgoglii d'alambicco alchemico, che tracima nell'esasperata e siderea vertigine della quarta parte, quasi a prefigurare i più turbolenti e ipnotici tempi della futura "trance music".
Scemata la nebulosa letargia panica della seconda parte, siglata dall'assolo dell'AKS sull'effetto risacca di "Oxygene 6" come chiave di volta con la successiva, e la vespertina piéce di attesa della terza campita da funerei rintocchi di campane oniriche, l'itinerario crono-emotivo dalla "nigredo" alla "rubedo" s'inarca improvvisamente nella plumbea fuga di sette note supportata da una coreografia ritmica di tamburelli sintetici firmata da cimbali riverberanti, impetuosa nell'innesco dello score centrale, quasi "cariocinetica" evoluzione del fraseggio di "Oxygene 2", introdotto dai lancinanti vortici del vocoder e dell'Arp 2600 sui quali la traccia si effonde in figurazioni esoterico-decadenti, prima di cedere il passo alla seconda tranche dell'album all'interno di un pluviale tableau vivant.
Il matrisequenzer tiene il gioco polifonico fino alla settima parte, celebrando musicalmente la bioritmica dell'esistenza diurna nella sua polimorfica animazione: la fase della "citrinitas"contrassegnata dal giallo, terz'ultimo momento del processo di ascesa dalla cupezza dell'informe al fulgore liberatore della luce e dell'idealità, si estrinseca a partire dal motivo epico-ancestrale di "Equinoxe 5", pseudo-liturgico inno in onore di un futuribile ecosistema high tech, maestosità della transizione dalla materia alla forma, condizione di totale interazione spirito-natura, articolato in duplice soluzione nella sesta e settima parte con l'apporto dell'immancabile Eko ComputeRhythm a costruire un intermezzo elettro-picaresco con la sesta (attesa briosa e disincantata con la sua esigua tornata di note Korg) e il ritorno dell'Aks come soprano ad accompagnamento del refrain trascinante e impavido della settima parte, riecheggiata sul recupero del clima d'inquietudine mistica della quarta. Difatti la propaggine del tema si esaurisce in un ultimo guazzo cromatico presago dell'acquisizione e superamento dell'estremo gradino verso il compimento dell'opus alchemico. Degna di rilievo la digressione cinematografica della "Band In The Rain" (una sorta di richiamo ipertestuale ad "Amarcord") in apertura di "Equinoxe 8", che attinge direttamente alle remote memorie "felliniane" delle orchestrine circensi dell'infanzia. Il respiro ritmico-sinfonico di Equinoxe viene premiato con la vendita di sette milioni di copie e la mise en scene del primo concerto tenuto il 14 luglio del 1979 a Parigi in Place de la Concorde, dove verrà eseguito insieme alle sei parti di Oxygene davanti a un milione di persone.
Per sua fortuna le onorificenze e i riconoscimenti che suggellano il trionfo commerciale, come il Grand Prix du Disque per Oxygene, la nomina a personaggio dell'anno per la rivista "People" e l'entrata nel Guinness dei Primati per il concerto con il più alto numero di spettatori, non lo distolgono dal proseguire la sua personale ricerca condotta in quell'enclave tra musica di massa e sperimentazione in cui artisti come i Kraftwerk e i Tangerine Dream si erano sterilmente arenati. Gli anni 80 si aprono all'insegna dei Fairlight, primo sintetizzatore-campionatore digitale di cui Jarre diviene privilegiato possessore insieme a Peter Gabriel. Magnetic Fields, portato a termine all'inizio del 1981, offre la terza incarnazione del concetto jarriano di un synth-pop pittorico ed esoterico che vive all'interno della dicotomia tra catchy tunes, composizioni orecchiabili a misura di radio, e avvolgenti suite polifoniche a tesi. Curiosamente simile alla suddivisione dei brani di "Medley" dei Pink Floyd, mentre sul lato A presenta una lunga cavalcata proto-techno di 17 minuti incalzata da arpeggi mesmerici e percussioni sferraglianti, dove voci psichedeliche e rombi di aerei rielaborati al Fairlight cospirano all'evocazione di misteriose vastità spazio-temporali, il lato B procede in maniera incerta e discontinua tra il giro di note sognante quanto infantile di "Magnetic Fields 2" sostenuta dal ritmo martellante di una macchina da scrivere campionata (rendendo omaggio alla lezione di Schaeffer), i rintocchi meccanici della terza parte, la melanconica ballata della quarta parte che, attraverso lo sfrecciare di un treno sulle rotaie, trascolora nella metatestuale incoerenza di una parodistica riproduzione di una "last rumba", avviata dal rumore della puntina di un juke-box che si adagia sul vinile.
Grazie alla mancanza di contenuti verbali forieri d'idee sovversive, in Asia la musica di Jarre viene preferita a quella sferzante dei gruppi rock anglofoni e trasmessa costantemente sulle radio locali, tanto da persuadere la Cina a invitarlo a tenere la prima tournée di un artista occidentale nella repubblica post-maoista. A fare da diario per immagini e suoni di questa avventura irripetibile vissuta nella primavera 1981 tra Shangai e Pechino sarà il video documentario di Andrew Piddington e il doppio album Concerts In China, pubblicato nel 1982.
In realtà per buona parte uno "studio album" (per via delle difficoltà tecniche incontrate durante le performance live), i due vinili ripercorrono alcuni dei momenti migliori dell'ancora esiguo repertorio jarriano trascurando Oxygene e indulgendo in riarrangiamenti pseudo-acustici e fughe jammistiche come quella in coda a "Magnetic Fields 2" e a "Equinoxe 7". Gemme a sé stanti al di fuori dei rimaneggiamenti di brani tradizionali cinesi come "Fishing Junks At Sunset" (erroneamente attribuito a Jarre sui credits del disco) sono le tracce composte ex novo con l'intrepido staccato di "Orient Express", il trascinante ricamo psichedelico di "Arpeggiator" (in seguito utilizzato da David Lean a commento di una focosa scena di "9 settimane e mezzo") e "Souvenir Of China", un'elegiaca istantanea concepita al ritorno dalla tournée introdotta dalle voci di bambini cinesi e cadenzata dagli scatti della polaroid (quelli stampati sulle sleeve covers del doppio album).
In un panorama musicale ormai in tumulto per la crescente emancipazione degli strumenti elettronici che contribuiscono a plasmare nuovi stili come quello obliquo tra art-rock, electro-dark e new wave di Depeche Mode, Dead Can Dance e dei Cocteau Twins, Jarre spinge lo sguardo ancora oltre, partorendo quello che resta forse l'ultimo suo lavoro significativo. Dalle ceneri di "Music For Supermakets", disco a tiratura unica il cui master verrà letteralmente bruciato al termine di una storica asta all'Hotel Drouot dove verrà acquistato da un certo signor Gerard (svegliatosi da un coma con la musica di "Souvenir Of China"), nasce infatti la fenice di Zoolook. Così come "Music For Supermarkets", composto da principio per fare da commento sonoro a una mostra di arte contemporanea, si pone implicitamente quale risposta alla filosofia ambient di Brian Eno, allo stesso modo Zoolook sfida apertamente "My Life In The Bush Of Ghosts" di Eno e Byrne, rimpolpando con una pleiade di voci registrate in giro per il mondo dall'etnologo Xavier Bellanger le scarne bozze del disco "opera d'arte" (la quinta parte si tramuterà in "Blah Blah Cafe" e la settima nella seconda parte di "Diva"), offerto in pasto ai pirati da Jarre in persona durante la sua unica messa in onda su una radio francese. Il disco segna anche la prima ampia collaborazione di Jarre con artisti provenienti dai più diversi ambiti della musica contemporanea: da Adrian Belew dei King Crimson che trapianta nelle distese di droni e pads di Jarre le potenti plettrate della sua chitarra elettrica, a Marcus Miller che scandisce le battute con il suo basso incombente, dalle batterie rutilanti di Yogi Horton ai fonemi alieni di Laurie Anderson che duettano con la parata allucinatoria dei campioni del Fairlight nel pezzo fanta-tribale di "Diva".
Se nell'opera di Eno e Byrne, come nei dischi coevi degli Art Of Noise e degli Yello, le voci umane vengono manipolate alla stregua di effetti "perturbanti" intorno ai quali edificare brani irrisolti tra canzone teatrale e divertissement dadaista, in Zoolook sono trattate come veri e propri strumenti riproducendo bassi, fiati, archi e arpeggi fino a evocare un'orchestra fonetico-multietnica nel capolavoro dal dinamismo post-wagneriano e cinematico di "Ethnicolor", una suite di circa dodici minuti suddivisa in tre movimenti che costituisce l'acme creativo del disco e di tutta la carriera di Jarre.
Con il monumentale concerto di Houston del 5 aprile 1986 celebrato per i 25 anni della Nasa e i 150 anni della città e del Texas, ha inizio una ventennale parabola di mega-live che porteranno Jarre a subordinare sempre più l'attività di certosino compositore da studio a quella di "Fitzcarraldo" di maestosi happening multimediali che si chiuderà con il concerto tra le dune di Merzouga del 2006.
A testimoniare questa nuova gerarchia di priorità nel modus operandi è la genesi stessa dell'album Rendez-Vous, che viene frettolosamente registrato in poco più di due mesi, riciclando e ampliando brani precedenti come la terza traccia di "Music for Supermarkets", uno spasmodico arpeggio in odore di cosmic music, reinserita quale terzo movimento di "Rendez Vous 5"; l'assillante accordo di due note della canzone "La Belle e la Bete" composto nel 1975 per Gerard Le Norman, rivalutato come fondamenta dell'imponente costruzione operistica di matrice "orffiana" di "Rendez Vous 2", intervallata dall'assolo minimale e struggente modulato dal freddo barrito dell'italiano Elka Synthex, strumento con il quale viene eseguito anche il tema di "Rendez Vous 3" riesumato da "La Mort du Cygne", altra canzone scritta per Le Norman; la frase melodica del famoso "Rendez Vous 4", evidente rivisitazione di quella scandita dalla voce sintetizzata di "Zoolookologie".
Incerto tra barocchismi futuristici, ibridazioni elettro-orchestrali e pseudo-jazzistiche, il disco risulta stilisticamente incompiuto e vive più delle sue parti che come lavoro unitario, fondandosi sul concept effimero del sontuoso concerto commemorativo tenuto tra i grattacieli in costruzione del Downtown di Houston in onore degli astronauti morti a bordo del Challenger pochi mesi prima (resta isolata la toccante parentesi ambient-jazz di "Ron's Piece", dedicata all'astronauta e sassofonista scomparso Ron McNair). La seconda entrata nel Guinness dei primati con un milione mezzo di spettatori sparsi ovunque intorno all'immenso drive-in sovrastato da bufere pirotecniche, gli vale un secondo allestimento per il concerto dedicato al papa in occasione della visita nella sua città natale di Lione nell'ottobre dello stesso anno.
Anche i successivi Revolutions, Waiting For Cousteau e Chronologie rispettano questa nuova agenda creativa, adeguandosi con esiti alterni al costume consolidato di affiancare lunghe suite elettro-acustiche dal respiro epico a brani in formato radio-edit oscillanti tra formule pop-rock e world-music. All'ennesima suite neo-sinfonica ripartita sul lato A in una "Ouverture" e tre parti di "Industrial Revolution" articolata sui clangori e le sonorità ferrose del Roland D-50 a evocazione dei ritmi serrati e implacabili dell'era industriale, fa da appendice "London Kid", una dolciastra ballata vintage-rock sostenuta dalla chitarra elettrica di Hank Marvin, leader dei britannici Shadow, ammirati da Jarre ai tempi dei suoi Mystere IV, mentre sul lato B, lanciato da un lungo assolo di flauto turco, "Revolutions" scalpita dietro un'alienata voce vocoderizzata in un ringhiante techno-rock che ben si adatta alle coreografie di danzatori dervisci e gigantografie pop ideate per il visionario concerto nei Docklands di Londra nelle piovose notti dell'ottobre 1988.
Indossati i panni del regista cinematografico più che del compositore, il live londinese segna il coronamento dell'ambizione a raggiungere il punto di fusione tra arti scenografiche e musicali, con la cura maniacale del design del palco galleggiante equipaggiato di tastiere e strumentazioni ispirate all'estetica del futuro decadente di "Blade Runner" e quello organico-barocco di "Dune", nonostante per Jarre l'intera produzione dell'evento avversata da intemperie e beghe burocratiche equivalga in realtà a "girare 'Apocalypse Now' in una notte".
Nel Bastille Day del 1990, "Paris La Defense - Une ville en concert", oltre a marcare la terza entrata nel guinness dei primati con i suoi due milioni e mezzo di pubblico, rappresenta anche l'ultimo riuscito concerto concepito a misura di città. L'approccio da "land-artist" votato a unire passato e futuro già applicato a Houston, Lione e Londra, si esplica nella simbolica integrazione del nuovo quartiere della Defense nel vecchio contesto urbano messo in comunicazione a distanza con l'Arch de Triomphe grazie alla collocazione intermedia del palco piramidale dal quale Jarre diffonde i cavalli di battaglia della sua discografia, tra un tripudio di fuochi d'artificio, grattacieli convertiti in organismi multicolori e pupazzi caraibici danzanti.
I tre nuovi brani del disco Waiting For Cousteau dedicati alla barca "Calypso" dell'oceanografo Jaques-Yves Cousteau coprono solo un quarto dell'intera performance, trascinando inesorabilmente il live tra il crescendo di furiosa ebbrezza percussiva degli steel drum suonati dagli Amoco Renegade di Trinidad verso la sua caleidoscopica apoteosi finale. Audace surrogato della classica suite è invece la traccia eponima dell'album, criptica quanto oceanica "audiosfera" ambient di 46 minuti in cui lugubri echi di piano ondulano sopra incommensurabili estensioni di effetti e droni ribollenti (memore di questa enigmatica perla jarriana sarà "Somnium" di Robert Rich).
"Equinoxe 2.0" potrebbe invece chiamarsi Chronologie, concept album nato del 1993 sulla scorta del libro di Stephen Hawking "Breve storia del Tempo" (anche se in realtà "Chronologie 4" e "Chronologie 5" erano stati commissionati dalla compagnia svizzera di orologi Swatch). Le otto parti di questa suite stilisticamente eterogenea dalle altalenanti mire narrative, che si snoda tra intermezzi audio-scenici di orologi scricchiolanti, aggiorna il capolavoro del 1978 alle nuove tendenze musicali degli anni 90, intersecando la grandiosa apertura dagli accenti da "space opera" della prima parte con la "dance" incalzante della seconda, dove Jarre sembra parodiare se stesso con esagitati staccati di organo epigoni di quello di "Equinoxe 4", e con quella più mesta e rigorosa della sesta, che a suo modo deriva dal motivo mesmerico di "Magnetic Fields 4".
Ad eccezione della chitarra elettrica di Patrick Rondat, l'album è governato interamente dal suono analogico di vecchie e nuove tastiere, inversione di rotta confermata quattro anni dopo con il manieristico sequel di Oxygene. Nel mezzo si situa "Europe in concert", il primo tentativo di Jarre di abbandonare la formula ormai stanca del "City in concert" imbarcandosi in un vero e proprio tour senza rinunciare al gigantismo e ai mirabilia ormai diventati il logo della sua "azienda" multimediale.
Nel 1995 Jarre si concede il suo terzo Bastille Day, stavolta ai piedi della Tour Eiffel, limitandosi a riarrangiare il vecchio repertorio insieme ai più recenti brani di Chronologie.
Ben poco dell'innocente minimalismo e delle ammalianti intuizioni sui generis che avevano contribuito alla fortuna atemporale di Oxygene sopravvivono nelle successive sette parti di Oxygene 7-13, pubblicato nel 1997 e dedicato alla memoria di Pierre Schaeffer, morto due anni prima, prosieguo revisionista della suite del 1976 che indugia tra commoventi autocitazioni e reprise palmari dei vecchi temi, come la melodia piangente dell'Aks di "Oxygene 1", incastonato nella nona parte, l'onirico formato radiofonico di "Oxygene 4", replicata in chiave trance in "Oxygene 8" (4+4) e il ritmo traballante del rythmin' computer della malinconica "Oxygene 6", sul quale si chiude la tredicesima (rasentando tuttavia il plagio con le 4 note di "Oxygene 7" tremendamente reminiscenti di "Blade Runner End Titles" di Vangelis). Michel Geiss fa qui la sua ultima comparsa nei credits, aprendo con il suo congedo dal team jarriano una lunga sequela di defezioni, a partire dalla moglie Charlotte, fino ad allora musa e fotografa ufficiale di tutti i suoi concerti, a molti dei suoi collaboratori storici, compreso Francis Dreyfus, il produttore discografico di musica jazz che aveva pensato di vendere non più di 50.000 copie di quel disco senza canzoni battezzato col nome di un gas.
La quarta entrata nel guinness dei primati con i tre milioni e mezzo di pubblico presente alla data moscovita dell'"Oxygene tour" pone il sigillo alla fine di un'era.
In questo senso il ritorno alla dimensione canora di Metamorphoses vorrebbe fungere da emblematica tabula rasa da cui principiare la seconda fase di una carriera già quasi trentennale. Ma il faraonico showcase del disco nel fantasmagorico concerto tenuto davanti alle piramidi di Giza nella notte del 1° gennaio 2000 ha quasi il valore di una profezia: una fitta nebbia manda letteralmente in fumo mesi di lavoro condotti sulle proiezioni destinate alle piramidi retrostanti il palco. E' la bruma che cala sulla vita artistica e privata di Jarre. Le molteplici partecipazioni di artisti femminili al disco, da Natacha Atlas, che gorgheggia nella lunga single track "C'est la vie", tra archi arabeggianti svolazzanti su arpeggi in salsa dance, a Laurie Anderson che ricompare in "Je me souviens", stavolta per prodursi in una notturna enumeratio di pittogrammi fonetici in uno dei pochi momenti originali del disco, al violino di Sharon Corr nella kraftwerkiana "Rendez Vous a Paris" non bastano a risollevare le sorti di un album in cui i testi difettano di una vera coesione poetica e la musica fatica a tratteggiare con la stessa intensità le atmosfere trascendenti di un tempo. Fa capitolo a sé "Miss Moon", curiosamente un brano dark-chill out privo di parole che è anche un'ultima degna prova di musica concreta con il suono dell'innaffiatore che regge come un metronomo tutta la sezione ritmica sotto i virtuosismi incorporei della voce di Dierdre Dubois.
Passeranno sette anni prima che Jarre pubblichi un nuovo album in studio, smarrendosi tra scialbi side project, come l'abortito album di "Rendez Vous In Space", concepito insieme al giapponese Tetsuya Komuro e nato e defunto nel capodanno del 2001 nel concerto di Okinawa; Geometry Of Love, del 2003, una raccolta di stentati pezzi lounge registrato al computer con soft synth per il "Vip room", club parigino di Jean Roch; "Interior Music", tedioso assemblaggio di effetti per la catena Bang&Olufsen; i vetero-avanguardismi del live di "Printemps de Bourges" del 2002, e le algide improvvisazioni electro-jazz di "Session 2000", pubblicati per risolvere il contratto con Dreyfus.
Nell'epoca degli Air, dei Daft Punk, di Moby e dei Röyksöpp, ai quali Jarre ha idealmente passato il testimone, nessuna di queste opere è più in grado di tenere alto il vessillo dell'"alfiere della musica elettronica". Dopo il lancio dell'olofonia con il suono in 5.1 di "AERO", antologia di brani ripescati tra Oxygene e Chronologie, con l'aggiunta della rielaborazione alla Robert Miles di "Je me Souviens" nella title track (la tournée prevista per la promozione si perderà per strada, riducendosi a due date tra le mura della Città Proibita di Pechino nel 2004 e il porto di Danzica nel 2005), Teo & Tea, basato nelle intenzioni sull'evoluzione di un rapporto amoroso, è l'atto conclusivo di un processo di auto-negazione dettato dall'insostenibile peso della propria leggenda. L'infantile minimalismo della datata e stucchevole eurodance del singolo non è che la conseguenza di una sindrome di "Dorian Gray" che a tratti riporta Jarre sulla strada di "Deserted Palace", tanto sgraziati ed esigui sono brani come "Gossip", "Chatterbox" e "In The Mood For You" da ricordare i primi cimenti con l'Ems e il Farfisa, priva però della ludica purezza del giovane musicista in avanscoperta (e infatti quasi tutti i suoni e i groove sono preset del nuovo Roland MC808 programmato dal dj Tim Hufken).
Destato di soprassalto dalla catastrofe commerciale, Jarre corre ai ripari rifugiandosi per la seconda volta nel passato. La versione rimasterizzata di Oxygene, rieseguita per la prima volta in maniera filologica in tutte le sue parti con le "vecchie signore" analogiche nel settembre dello stesso anno insieme ai fidati Francis Rimbert, Dominique Perrier e Claude Samard, ha l'agrodolce sapore di un'improrogabile auto-commemorazione. I concerti che seguiranno dal Teatro Marigny fino al vecchio/nuovo tour "Indoors" 2009-2010 nelle arene delle città europee dilatano all'inverosimile il tempo di una liturgia lapalissiana. Esauriti i contenuti e la spinta propulsiva dell'epoca pionieristica, la rivoluzione musicale di Jarre, come tutti i grandi sommovimenti dell'arte, si è fossilizzata negli strati della storia culturale, lasciando in superficie solo il performer, libero di continuare a trastullarsi con i propri giocattoli. Un po' come quel piccolo lionese che dal balcone di casa sognava le meraviglie del circo inseguendone i suoni perduti nell'aria.
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